Quando deve scappare dalla finestra, il guerriero Machete si cala usando come corda l’intestino appena strappato a un nemico. Inondato di sangue e costellato di arti mozzati, l’ultimo film di Robert Rodriguez è un western pulp (immigrati clandestini messicani contro squadra anti-immigrazione texana) dove tutto è concesso.
Machete si veste da B-movie o quantomeno da cinema pane e salame, ma sotto sotto, quasi clandestinamente (appunto), è pervaso da cura maniacale della singola inquadratura, altro che B-movie. E il cast di star (Danny Trejo come protagonista, e poi De Niro, Steven Seagal, Jessica Alba…), disposte a mettersi in gioco in questo tourbillon di follie, genera un corto-circuito che vibra dall’inizio alla fine.
Certo, il pulp è un genere al quale si concede sempre un vantaggio: qualunque bizzarria degli autori diventa automaticamente, agli occhi di critica e appassionati, ironia geniale e del tutto volontaria. E Rodriguez, magari, non sarà Tarantino, ma quello che perde in eleganza lo guadagna in spontaneità, riportando tutto a una dimensione in cui il primo obiettivo del cinema resta, in barba alle filosofie, divertimento (e però divertire facendo cinema e non para-televisione).
Così anche il messaggio politico (la condanna degli estremismi della lotta all’immigrazione messicana negli States) alla fine passa, in modo genuino: non perché Rodriguez si dimostri fine storico o politologo, e neppure genio delle metafore, ma perché, appunto, ci fa divertire con il (vero) cinema, e facendoci divertire ci spinge a ricordare il film, e con esso anche il suo tema. Tutto qui, tutto elementare eppure l’arte di far funzionare le cose semplici (ma autoriali) non va sottovalutata.
Peraltro, Machete ha una genesi del tutto singolare. Nasce da un finto trailer che lo stesso Rodriguez e Tarantino avevano inserito in Grindhouse, il loro film a quattro mani del 2007. Da quel momento, Machete è rimasto nei pensieri di Rodriguez, fino a diventare un vero film. E tutto sommato è andata bene così.