Diario americanoMilano, USA.

     La campagna per le presidenziali USA è solo all'inizio. Se lo sfidante democratico è ovviamente scontato - Barack Obama -, quello repubblicano è ancora di là da venire. Tra i probabili candida...

La campagna per le presidenziali USA è solo all’inizio. Se lo sfidante democratico è ovviamente scontato – Barack Obama -, quello repubblicano è ancora di là da venire. Tra i probabili candidati ci sono Tim Pawlenty, ex-governatore del Minnesota; un altro ex-governatore, Mitt Romney, del Massachussetts; e Jon Huntsman, appena tornato dalla Cina, dove è stato ambasciatore per circa due anni.

La rosa è ancora incompleta. Altri nomi potranno aggiungersi, nei prossimi mesi. Il problema dei repubblicani è quello di trovare un candidato che riesca a re-interpretare i temi tradizionali del conservatorismo – mercato, difesa nazionale, riduzione del ruolo pubblico – senza per questo farsi cannibalizzare dai vari Tea Parties.

Le truppe di Sarah Palin, di Glen Beck, di Sharron Angle possono essere sì utili per mobilitare la base elettorale repubblicana, ma si rivelano un disastro a livello più complessivo. Il loro conservatorismo radicale, urlato, per certi aspetti anti-moderno è fatto per allontanare la maggioranza dell’elettorato. E’ quanto è successo, in fondo, nel 2008. L’appiattimento dei repubblicani su un’immagine di America antica, populista, tradizionale (quella di “Joe l’idraulico”, come è stato detto) ha facilitato la vittoria dei democratici e di Obama. Nel 2008 le dieci città più ricche del Paese hanno votato democratico. I dieci Stati più ricchi del Paese hanno votato democratico. L’America anti-aborto, anti-gay, anti-immigrati non è riuscita a diventare maggioranza, soprattutto nelle aree più ricche d’America.

La campagna per le presidenziali 2008 – che ho avuto la fortuna di seguire in presa diretta – mi è venuta in mente vedendo i manifesti di un’altra campagna, quella per le amministrative milanesi 2011. Ovviamente i contesti, i luoghi, le tradizioni, la memoria storica sono diversissimi. Eppure c’è qualcosa che lega la destra americana di ieri a quella milanese di oggi: in particolare, il rifiuto della modernità, il ripiegamento sul piano di una morale cupa ed escludente (ripiegamento tanto più strano, per una destra che si pretende espressione del liberismo capitalista più avanzato).

Dopo la sconfitta al primo turno, la Destra ha tappezzato Milano di manifesti che mettono in guardia dalla trasformazione della città in una “zingaropoli”. Pisapia, è stato detto, moltiplicherà le moschee, legalizzerà la droga, darà i bambini in adozione ai gay. Questo appiattimento sul tema dei non-diritti lascia quasi completamente scoperto il piano dello sviluppo, dei servizi, della modernizzazione economica. Come se fossero gay, rom e spinelli i principali problemi per una città del terziario avanzato, al centro di una rete di scambi, interessi, migrazioni sempre più globali.

Mancano otto giorni al secondo turno, e forse Berlusconi, Moratti & Co, potranno ribaltare il risultato. Ma l’impressione è che le attuali difficoltà della Destra milanese, come di quella americana due anni fa, non dipendano tanto dai toni “non moderati”, quanto dall’incapacità di guardarsi attorno e di vedere cosa sono diventate le nostre città, le nostre famiglie, i nostri vicini. C’è un problema di realtà, per le destre occidentali, un problema di adeguamento alla complessità. Il mondo non si ferma al mercato rionale. La politica non si riduce all’esaltazione di una morale che non c’è più.

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