Dimensioni del formato standard, alta definizione grafica, sfondo compatto e uniforme, isolamento e frontalità del soggetto, espressione neutra del volto, illuminazione zenitale senza ombre, nessun effetto artistico-compositivo, occhi ben aperti, colori naturali e assenza di qualsiasi accessorio illustrativo. Queste, in sintesi, sono le regole con cui l’ICAO, organizzazione internazionale dell’aviazione civile, stabilisce la conformità delle fototessere ai documenti d’identità. Tuttavia la norme vigenti non sono un parto della burocrazia odierna, vantano natali ben più illustri. Le loro origini si possono far risalire alla seconda metà del XIX secolo, quando, in psichiatria, antropologia e criminologia, si affermarono i primi sistematici tentativi di catalogazione dell’identità umana attraverso la fotografia. Come ha giustamente notato Federica Muzzarelli in un bel libro uscito qualche tempo fa, le tecniche “ottocentesche” di schedatura hanno fatto da preludio al ritratto “regolamentato” che oggi compare sui nostri passaporti e carte d’identità. Nel trattamento omologante della nostra immagine identitaria s’intravede insomma la continuazione di quel metodo classificatorio in “formato tessera” con cui la scienza positivista trasformava l’essere umano in materiale inerte d’archivio o di laboratorio. Il soggetto biografico ed esistenziale diveniva così una mera raccolta di dati registrati da una macchina, un referto clinico o un reperto archeologico, su cui eseguire, con neutralità, distacco e assoluta imparzialità, analisi minuziose e scientificamente attendibili.
Tuttavia, come sappiamo, l’ansia razionalistica del XIX secolo ha agito troppo spesso in modo indiscriminato e deterministico, senza porsi domande su cosa fosse veramente l’identità.
Riapre la questione questa lunga serie di doppi ritratti fotografici presentati dagli artisti armeni Suren Mavelyan e Biayna Mahari, i quali hanno messo a confronto vecchie foto provenienti da passaporti con altre fototessere delle stesse persone scattate però più di recente. Ciò che si nota fin da subito non sono tanto le analogie, certamente numerose, quanto piuttosto le differenze. La rassegna, solo in apparenza ironica e giocosa, fa luce su un tema filosofico di grande rilevanza: l’identità e il suo rapporto con la fotografia.
L’identità degli esseri umani è quanto di più mobile e mutevole ci possa essere, poiché si trasforma incessantemente in funzione del tempo. Al di là dei luoghi comuni, quando vogliamo rendere riconoscibile un soggetto, ossia “identificarlo, dobbiamo stabilirne delle differenze rispetto a tutto il resto. Non esistono due cose identiche, giacché nulla si ripete uguale a se stesso: la contingenza temporale apre sempre al cambiamento; l’identità nasconde la differenza.
L’impossibilità di mantenere nel tempo la stessa versione dell’identità viene rivelata proprio dal secondo scatto che mostra, salvo piccole infrazioni al rigido regolamento della foto-passaporto, più o meno la stessa posa, la stessa inquadratura, lo stesso soggetto, ma mettendo in evidenza un passaggio, una sequenza. Il tempo, escluso dall’istante congelato della prima immagine, è continuato a scorrere e a esprimere inesorabilmente la forma del suo transito. Come durante la proiezione di un film, infatti potremmo pensare a queste due immagini come a due fotogrammi in successione, ogni interruzione, ogni pausa ci spingono a interrogarci su cosa accadrà dopo.
Questa mostra fotografica, ripristinando il problema della temporalità, affronta, forse a sua insaputa, certe questioni che hanno innescato una crisi epocale portando alla nascita della contemporaneità in cui tuttora viviamo.
L’ottocento, l’ultimo secolo dell’età moderna, aveva teorizzato un modello di cultura e di scienza in grado di fissare l’immagine definitiva del mondo senza errori, dubbi, o incertezze. In risposta, il Novecento ha imparato, invece, a relativizzare la realtà e a relazionarsi con i concetti di durata, movimento, azione, scarto, variabile, differenza.
A questo proposito è interessante notare come quella stessa fissazione fotografica che aveva incasellato il volto dell’uomo in tipologie, prototipi, modelli generali immobili e immutabili, abbia finito per confutare se stessa, o meglio la modalità meccanicistica con cui era stata utilizzata. Ma per far questo ha, in qualche modo, dovuto rinunciare alla sua staticità e trasferirsi all’interno di processi più fluidi, più capaci di manifestare la vera natura instabile e inclassificabile del tempo. Il cinema, la televisione, il video, tutti figli e nipoti della fotografia, hanno infatti dimostrato che soltanto il mutamento può svelare il senso ultimo della vita.
11 Giugno 2011