Il sipario strappatoPer il teatro italiano è finita un’epoca

Nello scorso febbraio, il mese più caldo sul fronte dei tagli ai fondi pubblici per lo spettacolo, è nata una nuova compagnia. I tre attori che l’hanno fondata – Marco Cacciola, Michelangelo Dalisi...

Nello scorso febbraio, il mese più caldo sul fronte dei tagli ai fondi pubblici per lo spettacolo, è nata una nuova compagnia. I tre attori che l’hanno fondata – Marco Cacciola, Michelangelo Dalisi e Francesco Villano – hanno scelto di chiamarla InBalìa. Ho chiesto loro: perché? Mi hanno risposto con un bel dialogo a tre voci, fra il drammaturgico e il sapienziale, che riporto integralmente in chiusura di questo post.
Certo, a dar vita a una compagnia mentre si sta per dare il colpo di grazia finanziario al teatro ci vuole un bel fegato (ma forse ce ne vuole uno grosso, come dimostrerebbero le 4 bottiglie di vino che compaiono nel dialogo). Oppure bisogna essere dei provocatori sopraffini e stoici, cioè capaci di immolarsi per lanciare un messaggio ineccepibile: quale migliore metafora della situazione del teatro italiano di quel nome, InBalìa?
Si sa poi com’è andata. Proprio quando la catastrofe sembrava irreversibile, il Consiglio dei Ministri ha annunciato il reintegro totale dello stanziamento del FUS, il famigerato Fondo Unico per lo Spettacolo. Sulle dinamiche con cui si è giunti a questa apparente resa della politica alle esigenze della cultura ci sono almeno due versioni. La prima non può che essere quella ufficiale, passivamente riferita anche da testate giornalistiche che in altre situazioni avevano scelto di essere meno ingenue. Secondo questa versione, il ministro Tremonti si sarebbe fatto convincere da Gianni Letta di ciò di cui non aveva saputo convincerlo il ministro Sandro Bondi: la cultura è un bene irrinunciabile per l’Italia, dobbiamo preservare i posti di lavoro nel mondo dello spettacolo, e altre edificanti amenità che – pare – Letta e Bondi hanno effettivamente ripetuto come un mantra all’orecchio del Ministro all’Economia. L’altra versione invece parla della necessità di agevolare il trasferimento forzato di un politico importante da un ministero con un portafoglio ben fornito a un altro in perenne crisi di fondi e per di più con una mobilitazione di attori e registi imbufaliti alle porte. Il politico in questione era Giancarlo Galan, costretto da ordini superiori ad abbandonare il Ministero dell’Agricoltura a un, per così dire, “responsabile”, ricevendo in cambio l’unico dicastero libero: quello lasciato vacante da Bondi. Si poteva insomma fare un torto così grosso a Galan rifilandogli un ministero di scarsa rilevanza senza nemmeno far cessare l’assedio di cineasti e teatranti?
“E’ finita un’epoca” andava ripetendo Andrée Ruth Shammah a chi, prima del provvidenziale reintegro del FUS, le chiedeva un commento sulla situazione del teatro in Italia. Quell’epoca è finita anche se i soldi sono arrivati. E’ finita un’epoca in cui si poteva considerare normale – diciamo pure: automatico – che il teatro venisse principalmente finanziato dal denaro pubblico. A sancire la chiusura di quell’epoca sono state proprio le modalità con cui sono stati trovati i soldi per il reintegro: aumentando le tasse più esecrate, quelle sulla benzina; ricorrendo insomma a “una formula con cui di solito si fa fronte alle calamità naturali”, come ha dichiarato Gaetano Callegaro a Radio 24. So di apparire iettatorio, ma devo chiedervi: secondo voi, alle prossime e forse imminenti elezioni, quando si dovrà blandire l’elettorato diminuendo alcuni balzelli, su quali cadrà la scelta? Al bando la scaramanzia: ammesso che le urne decretino un vincitore realmente disponibile a sganciare di più e a comportarsi più seriamente, basterà sperare che “il vento cambi davvero”? Affidarsi al vento? Ma allora non sarebbe meglio giocarsi gli incassi al superenalotto?
Quando un’epoca si chiude, se ne apre inevitabilmente un’altra: nel nostro caso un’epoca traballante, ancor più in balìa degli eventi. Questo blog si propone di sondare quel che resta del sistema teatrale italiano all’insegna di quel motto che invita a fare di necessità virtù. In fondo “in balìa” può anche voler dire “lasciarsi andare, non arroccarsi, godersi lo smarrimento esterno come parte necessaria della quiete interna … Accettare le paure, starci, come si diceva da bambini, giocarci. Oppure sfruttare a nostro vantaggio quella forza che crede di possederci … Giocare a carte scoperte senza pre/determinare la vittoria … vincere è stare bene anche in balìa … O shakespereanamente parlando balia come baliare: avere cura, attenzione, occhi, cuore. Oppure alcolicamente parlando in bahia … “

DIALOGO

Uomo 1
Uomo 2
Uomo 3
divano largo, 4 bottiglie di vino, una notte

Uomo 1 – Essere in balìa equivale ad un dover dipendere, e quindi a trovarsi alla mercé degli altri,
sia che essi decidano per il ludibrio sia che decidano per la pietà.

Uomo 2 – Per me è il contrario della dipendenza.. In balìa del proprio sentire nel senso di essere liberi, dalla mente, dalle regole, dalle relazioni.

Uomo 1 – D’altra parte, non è detto che la pietà doni sempre sollievo. Si danno casi in cui la pietà può risultare più dolorosa di ogni ludibrio. Ci sono motivi plausibili quindi perché il dolore resti nascosto e, in questo senso, mi piace parlare di pudore nel dolore.

Uomo 3 – Io la vedo da un punto di vista della meditazione, teatro come strada di conoscenza, superando il linguaggio, le forme, l’esserCi … Che dite?

Uomo 2 – Io dico che siamo già groppo di ricetta! Passami il vino…

Uomo 3 – Anche in balìa nel senso di lasciar andare, non arroccarsi, godersi lo smarrimento esterno come parte necessaria della quiete interna … Accettare le paure, starci, come si diceva da bambini, giocarci. Oppure sfruttare a nostro vantaggio quella forza che crede di possederci … Giocare a carte scoperte senza pre/determinare la vittoria … vincere è stare bene anche in balìa … O shakespereanamente parlando balia come baliare: avere cura, attenzione, occhi, cuore. Oppure alcolicamente parlando in bahia …

Uomo 1 – Io dico che non ce la faremo mai a non essere complicati … Passa il vino …

Uomo 3 – Complessi, complessi! Non complicati. Siamo in balìa delle nostre mille sfaccettature. Coniamo un nuovo verbo! Inbaliare: stare tra sé per donarsi fuori da sé … Io bevo!

Uomo 1 – Siamo in balìa della politica, delle lobby, dell’economia, delle bugie, degli sprechi, della non-meritocrazia, del qualunquismo. Siamo in balìa delle paure, dell’ego, delle regole, delle divisioni, della mente, delle morali, delle rabbie, dell’importanza personale. Certo, lo sappiamo, è la coscienza, la presenza, la consapevolezza a fare la differenza. A liberarci. La Responsabilità. Respirando … Osservando … Diventando spettatori … Bevo anch’io!

Uomo 3 – E sempre, e comunque, sculacciandoci!!! Io dico che è meglio sapersi in balìa, piuttosto che credersi liberi, accettare anche la sconfitta, gli sconquassi delle onde del mondo, invece di opporvisi ciecamente, ostinatamente e ottusamente, illudendosi che reagendo, lo si possa superare …

Uomo 1 – Aspetta, aspetta … Le onde mi piacciono …

Uomo 2 – Sì … In balìa delle onde, cioè abbandonati al fluire, senza opporre resistenza, con i muscoli rilassati e la mente aperta, cercando di stare nel proprio tempo con la consapevolezza, gli occhi aperti e tenendo ben presente i porti dove vorremmo sbarcare, le isole dei tesori, le isole che non ci sono, ma che servono a tenere lo sguardo e il respiro puntati ad un orizzonte, un’utopia senza la quale forse l’uomo andrebbe a fondo. Siamo cinque paperelle, cinque anatre che, migrando verso sud, mostrano la via ai marinai, e ogni tanto si fermano sulla superficie del profondo oceano per mangiare, riposarsi, certo, ma anche perché le onde ci permettono di danzare un po’…

Uomo 1 e Uomo 3 – Perfetto! Mandiamoglielo via mail. E poi brindiamo!

Entra nel club, sostieni Linkiesta!

X

Linkiesta senza pubblicità, 25 euro/anno invece di 60 euro.

Iscriviti a Linkiesta Club