Negli anni sessanta Pierre Bourdieu, in suo celebre saggio sulla fotografia come pratica sociale, sosteneva che i gruppi familiari avevano bisogno di sentirsi uniti e di rafforzare nel tempo il loro legame. Per far questo utilizzavano un “mediatore”, un soggetto delegato a rappresentare certe esigenze sociali. Non si trattava, però, di una persona fisica, bensì di uno strumento programmato per rimanere al servizio della comunità. L’insigne sociologo francese riteneva che lo strumento in questione fosse proprio la fotografia. Essa non era un oggetto che ambiva a diventare Arte con la maiuscola, pensata per le élite e per il pubblico colto, assiduo frequentatore dei musei, ma ad essere, semmai, un'”arte media”, cioè un’attività trasversale, un’operazione di connessione e di relazione fra le persone indipendentemente dalla loro “classe” di appartenenza . Le sue virtù estetico-formali erano, di conseguenza, meno rilevanti degli effetti procurati sugli utenti. Sulla base, infatti, dei responsi ricettivi si poteva verificare se la fotografia aveva alla fine procurato la coesione e l’unità dei singoli.
Bene, quello che abbiamo chiamato “programma” consisteva, secondo Bourdieu, nella rappresentazione visiva dei grandi appuntamenti sociali (nascite, comunioni, matrimoni, viaggi, ecc.), quelli che avevano il compito di istituire l’identità collettiva e fondare la tradizione. Tali momenti di saldatura, di consolidamento dell’unità e del senso di appartenenza del singolo al gruppo dovevano, in altri termini, acquisire un “potenziamento”, attraverso la conoscenza e la circolazione continuativa delle immagini fotografiche. Bourdieu, infatti, per distinguere la fotografia dei grandi eventi dalla semplice documentazione di un fatto banale dell’esistenza quotidiana, aveva scelto il termine di “solennizzazione”.
Fra le cerimonie più importanti della vita familiare il matrimonio veniva programmato attraverso un’iconografia rituale rispettosa di una coreografia convenzionale tramandata di festa in festa. La messa in scena coincideva con la realizzazione dell’evento. Per Bourdieu andava fotografato solo ciò che era “fotografabile”, o, detto altrimenti, che corrispondeva alle aspettative e ai parametri della rappresentazione. Pertanto non gli sposi secondo l’anagrafe, bensì i due attori, calati in un contesto scenografico prestabilito, in procinto di recitare una parte pressoché invariabile, così come era prescritto dal canone iconografico del matrimonio.
La fotografia di matrimonio, cioè quella fiction teatrale percepita come immagine reale, poteva a questo punto funzionare e portare a compimento il suo programma: compattare il gruppo mantenendo in vita una tradizione; ma a patto di ripetere meccanicamente un copione. La singolarità dell’episodio, la biografia individuale dei soggetti, il caso e l’imprevisto, le circostanze storiche, insomma, tutto ciò che non era stereotipico non contava niente.
Oggi, a distanza di cinquant’anni, tutto è rimasto più o meno identico; le tesi di Pierre Bourdieu, come volevasi dimostrare, perdurano ancora.
Ce ne offre una curiosa quanto emblematica testimonianza l’ultimo numero della rivista “Useful Photography“, pubblicata dalla geniale casa editrice olandese Kessels & Kramer (di cui torneremo a parlare) nella quale sono state raccolte decine di scatti “matrimoniali” provenienti da ogni angolo del pianeta. Tanto per dimostrare come, nonostante l’unicità dei sentimenti vissuti dalla coppia, le nozze, ovunque, non sono altro che una formula di rappresentazione, un catalogo di luoghi comuni. Dal taglio della torta alla foto con le damigelle, dal bacio con il casquet all’uscita della sposa dal luogo dove avviene la cerimonia, da lui che prende in braccio lei alla passeggiata romantica in riva al mare, potranno magari cambiare le razze e le età degli innamorati, ma il rituale resta sempre lo stesso. E, in fondo, non potremmo immaginarlo diverso, fintantoché ci sarà un’istantanea a farcelo sognare.
16 Giugno 2011