Da quando ero poco più che bambino, la Fantasia cromatica e fuga in re minore (n. 903 del catalogo delle opere di Bach) mi ha affascinato per ragioni che anche ora non riesco bene a spiegare a me stesso. Forse per quella mistione di libertà e rigore che, se caratterizza sempre quel grande, qui è al suo massimo (anche se non si tratta, per lui, di caso unico); forse perché il puro arabesco sonoro di quei festoni di note avvolge una delle pagine più misteriosamente malinconiche di un musicista che come nessun altro potrebbe essere definito compositore della gioia (l’unico per cui si potrebbe scomodare l’etichetta di «piacer santo» del Paradiso dantesco). Più in là nel tempo, un’ottima pianista amica di una delle mie sorelle me ne fece ascoltare parte; la stava ancora perfezionando, ma, a dimostrazione che per l’intelligenza della musica nulla vale quanto la verifica del suo progressivo farsi, quell’esecuzione è rimasta intatta nella mia memoria (forse anche perché, lo confesso, nel mio slancio adolescenziale rimasi non poco affascinato dall’esecutrice).
Tutto ciò per dire che quel pezzo non ho mai cessato di riascoltarlo, andando sempre in cerca di un’esecuzione che mi colpisse particolarmente. Di buone e ottime ce ne sono tante, ed è inutile farne un elenco, anche perché ognuno deve scegliersi le sue. Vorrei però raccomandare all’ascolto quella di una pianista al grande pubblico probabilmente quasi sconosciuta, l’americana Ruth Slenczynska, nata nel 1925. Molte sue interpretazioni sono ancora disponibili su CD, ma ignoro se lo sia questa. La si può ascoltare comunque su YouTube; si tratta di un’esecuzione degli anni Cinquanta circa, quando dunque la pianista era nel pieno della sua forza e giovinezza. Consiglio a tutti coloro che amano la musica di ascoltare questa magnifica lettura del pezzo, caratterizzata da quella che si potrebbe definire una sublime ma calda compostezza. Nel rispetto più fermo dello spartito, difficilissimo da attuare soprattutto in relazione alla sua estrema e sempre cangiante libertà ritmica, Slenczynska fa circolare un’ariosità che è difficile trovare altrove espressa con tanta naturalezza. Là dove molti corrono a velocità vertiginosa, sia pure impeccabilmente, si percepisce ogni nota. Né la dinamica, come talora accade presso altri, è mai esasperata. Al contrario; la pianista sa bene che il suo è uno strumento moderno, non imita una impossibile sonorità clavicembalistica. Il suo pianoforte ha preso la giusta misura dalla sua destinazione originaria, ma non l’ha dimenticata, l’ha per così dire inglobata e fatta sua (del resto l’esecuzione cosiddetta filologica era di là da venire), restituendo allo stesso tempo il senso della distanza. Una lezione per certi versi complementare, se non affine, a quella di un’altra grande (e invece ben nota) interprete di Bach, Rosalyn Tureck. Da entrambe Gould, che ora, passata un po’ l’adorazione di massa, si può finalmente gustare nella statura che effettivamente gli compete (la sua esecuzione del Clavicembalo ben temperato è difficilmente superabile, e nelle fughe in particolare, dove approda a esiti talora metafisici, semplicemente impareggiabile), sembra avere imparato molto. I nomi fatti ci insegnano di che stoffa debba essere costituita la fedeltà al testo, che non può mai pacificarsi nel raggiungimento di una indimostrabile fedeltà assoluta, né deve essere cercata prescindendo dal tempo che viviamo.
In una delle sue numerose fulminanti precisazioni antistoriciste Benjamin ha scritto: «Il problema non è di presentare le opere letterarie in rapporto al proprio tempo, ma di rendere evidente, nel tempo che le ha viste nascere, il tempo che le conosce e le giudica, cioè il nostro». Non c’è ragione di non applicare tale massima anche alle esecuzioni musicali, fatto salvo il rispetto invalicabile di quanto è indicato sullo spartito. La meta indicata da Benjamin resta tuttavia difficilissima da raggiungere; ma quello segnalato è uno dei casi in cui essa viene effettivamente attinta.
23 Agosto 2011