«La borghesia cambia di spalla al suo fucile»: Antonio Gramsci, ricordando la stipulazione del Patto Gentiloni nel 1912, coniava questa suggestiva metafora. Era il primo passo verso la fine del non expedit e dell’inizio dell’attività politica in prima persona dei cattolici italiani. La spalla reggeva prima il patto borghese con gli operai nell’ascesa industriale e riformistica, poi l’alleanza con il Vaticano, nei drammi della controrivoluzione preventiva fascista e del Concordato tra stato e Chiesa del 1929. Il paragone storico viene alla mente per differenza, certamente, e non per somiglianza.
Run, kid, run! (Gianni Dominici – Flickr)
Oggi ciò che rimane della borghesia italiana è troppo diviso e pulviscolare per sopportare il peso di qualsivoglia strumento di governo invisibile della società che non sia la corruzione oppure il finanziamento dei quotidiani più disparati e delle televisioni più pornografiche, per rimediare all’assoluta mancanza di una egemonia intellettuale di qualsivoglia tipo e natura. Tuttavia il magma diffuso dell’insoddisfazione verso una classe politica molecolare inconcludente, a fronte della pressione fortissima dell’oligopolio finanziario internazionale, Bce alla testa e banche trangugiatici alla coda, non può non produrre un nuovo homuncolus faustiano. Del resto, per riprendere una bella definizione dell’analista “maledetto” e intelligentissimo Lodovico Festa, un «piccolo establishment» funziona ancora e alla grande, allorché si tratta di cercare di influenzare le decisioni pubbliche dei caciqui italici, ovvero del personale politico solipsistico e pur tuttavia aggregante interessi economici avvoltolati, appunto, alle classi politiche. In primis locali, territoriali. Classi politiche che circolano grazie a quegli interessi che – quindi – debbono soddisfare in ogni modo ( e da sempre le concessioni edilizie sono terreno privilegiato dell’invisibile scambio), riperpetuando così se stesse mentre occludono i mercati e distruggono la concorrenza.
L’arcipelago dei capi locali e territoriali s’intreccia con filiere nazionali e financo internazionali ben rintracciabili da chiunque voglia indagare e non proteggere. Basta seguire la bava delle fondazioni politiche e bancarie e delle società di consulenza, che proliferano in primo luogo in campo “democratico”. Quelle bave son lì a dimostrare che i caciqi locali spesso rispondono a un grande caciqo nazionale che, di norma, spartisce lo stato e i territori con altri caciqi nazionali in una continua frammentazione decisionale e una insaziabile volontà acquisitiva. Cosicché la nazione si frantuma. Tale frantumazione, se soddisfa interessi a breve, rende impossibile ogni pianificazione del percorso degli interessi imprenditoriali (abbiamo sotto gli occhi la vicenda milanese dell’Expo che è una metafora da manuale di quanto affermo). La spesa pubblica, inoltre, in tal modo si gonfia a dismisura per via di questa circolarità viziosa multicentrica: l’assenza di centro in presenza di volontà spartitorie non sostenibili sregola lo stato e rende febbricitante il corpo della politica mentre infetta l’ economia, priva di regole e sconvolta dai dumping cleptocratici e monopolistici.
Per questo oggi il territorio è osannato da tutti coloro che fanno parte del sistema caciqistico tra economia e politica. Non a caso è lì che si annida il dilagare della spesa. È inarrestabile perché nutre tanto le classi politiche dalla breve vita (si ingozzano di risorse drenate e, così, in ancora verde età lasciano il campo del banchetto per divenire o consulenti o imprenditori: ed è una tendenza mondiale e non solo dell’Europa del Sud) quanto le imprese assistite e gli improduttivi mediatori che vivono del loro ruolo rosicchiando risorse, come un tempo facevano i mazzieri della mafia descrittici da Giustino Fortunato ed Emilio Sereni.
Ebbene, la grande crisi economica, la grande depressione che ci sovrasta non aveva affatto intaccato questo meccanismo. Di più, la crisi nel suo aspetto dilagante di produzione di debito a mezzo di debito e di shadow bank per mezzo di collaterali e leverage a rischio illimitato, ha dato un potere di condizionamento illimitato alle grandi banche capitalistiche universali in cui l’Italia eccelle per oscurità e per modestia, ma non per inefficacia lobbistica. Si guardi a varie vicende odierna di concussione e di corruzione, per esempio, con attenzione ai problemi di debito e di rinnovo dello stesso e tutta la luce sortirà dal tunnel in cui la si imprigiona nonostante le evidenze nascoste da sussurri e grida e da silenzi tombali.
Esse, le banche, sono così divenute i mazzieri del dazio dei crocevia dei percorsi caciquisitici e cleptocratici, forti di competenze tecniche e di capacità di collegamento con i centri dello stato e con i grandi caciqui nazionali. E il dazio lo pagano spezzoni di filiere d’imprese e spezzoni di circolazioni di classi politiche che senza la finanza non sarebbero mai state in grado di attingere al vaso di pandora dei finanziamenti e soprattutto dell’occultamento della competizione, che in tal modo è sfregiata, è distrutta.
Il percorso del Partito Democratico è esemplare a questo riguardo: le grandi banche stanno al Pd come la ricchezza berlusconiana – molto più debole e debolissima in verità – sta al Pdl. Ma naturalmente la ricchezza è assai più inadatta per governare i moderni crocevia delle gerarchia dei mercati occlusi, della finanza: “evoluta”, “raffinatissima”… nella distillazione del male e governata da uomini (e qualche donna) che si son formati oltreoceano Atlantico e han lavorato per le grandi banche d’affari che hanno già dato prova del potere devastante che possiedono sul suolo italiano a partire dal 1994 in Italia, per proseguire con il vento distruttore che sollevano in tutto il mondo. La ricchezza è cosa, invece, da parvenus… non si va lontano…
Ma ora? Ora anche le banche sono in crisi. La liquidità non c’è più. L’Abi solleva alte grida contro Basilea e teme dell’applicazione di regole che dovrebbero impedire alla banche di far default. La verità è che oggi son piuttosto le imprese a dare il credito alle banche. Ma non è credito interbancario: è ricchezza sottratta alla produzione che annuncia che la crisi finale è vicina. La Bce, poi, non è la Fed e, invece di temere la deflazione che incombe, teme l’inflazione, che sola potrebbe salvare governi e imprese strette nella camicia di ferro dell’euro e di una Germania che nel Novecento ha perso tutte le guerre ma ha vinto tutte le paci: nel nuovo secolo rischia di perdere la guerra economica continuando a pensare che si possa crescere circondati dalle macerie.
In questa situazione le tante facce del “piccolo establishment” iniziano a raggrinzirsi per la preoccupazione. La distruzione della poltica partitica inverata per azione congiunta da magistratura e grandi fortune nel primo quinquennio degli anni novanta del Novecento, ora si è rivelata essere un homuncolus faustiano (eccolo!) sfuggito dalla bottiglia: ha assunto forza propria. Con il fallimento dell’ operazione Mario Segni per insufficienze personali del prescelto, i casi Romano Prodi e Silvio Berlusconi sui cui versanti caciquisti l’establishment si era diviso e adagiato e spalmato con quotidiani, schiere di giornalisti, brasseuer d’ affaires, caciqui su caciqui, quei casi hanno condizionato con il loro vizio di struttura (il caciqismo) la vita italiana per diciassette lunghi anni, con il dilagare conseguente del ruolo della magistratura priva dei contro – poteri tipici de l’Esprit des Lois. E via, allora, all’ideologia del territorio, all’odiosa natura ontologica dei partiti politici, alla necessità del leader e via dicendo. E via dicendo e via facendo tutto si è sbriciolato e niente più si tiene: a sinistra come a destra…
Solo il centro peristalticamente si adatta a tutte le trasformazioni dell’era della distruzione dei partiti: è la sua essenza: decadere e risorgere, perché il centro per sua natura è un “non partito a geometria variabile”. Ma la peristaltica variazione continua e oggi non è più possibile, signori miei, non è più possibile. E quindi via il fucile dalla spalla e via tutto ciò che fa fibrillare l’ orizzonte e il rapporto tra politica ed economia: quindi via alla distruzione dei caciqui… per crearne di nuovi…Così pensa chi decade e rimane…
Ed ecco Marchionne che dichiara cose inaudite su Montezemolo per farsi perdonare lo scarso italico impegno dinanzi al sistema bancario e al sistema dell’establishment che vede il conflitto come il fuoco e non vuole scendere a patti con i sostenitori della necessità dello scontro sociale, alias divisione sindacale. Ed ecco Piero Bassetti, ultraottantenne guardiano luminoso della “borghesia rimasta”, con un’umanità e un’intelligenza troppo superiore ai più per far politica ieri e oggi, ecco che il grande Piero sculaccia Pisapia perché straparla sui «poteri forti», dimenticando che esistono quelli «buoni», dice il Piero, (Stefano Boeri docet), quelli che l’hanno eletto nella città borghese (piccola piccola) per eccellenza e vogliono ora essere obbediti, perbacco: non come è accaduto con quella pazzeriella della Signora Moratti, troppo indipendente da immobiliaristi e industriali e troppo dipendente dagli amici, sino a fermare le macchine avviate.
“Avanza uno strano soldato”: è la “borghesia che rimane” che si condensa, che si raggruma, che comprende che stiamo per sprofondare, che i lanzichenecchi ch’io chiamo caciqui, si stanno trangugiando l’Italia o per voracità o per incapacità: ed ecco allora le soluzioni: Montezemolo in campo, Prodi Presidente della Repubblica e nessuna mediazione tra banche, finanza e quel che rimane della politica. Più complicate le cose per l’establishment che guarda a Berlusconi: è sparuto, pauroso, incerto, privo di cervelli fini come i dottori sottili di cui si dispone dall’ altro lato della collina. Scivola giù, sempre più giù. Ma se si trovano gli homines novis forse una soluzione, non tecnica, ma leaderistica neo prodiana o neo segniana o neo berlusconiana, tutto serve per non scivolare giù, è alle porte: Bce permettendo, Mediobanca includendo e grandi banche operando.
Il problema è che, lo credo fortemente, quella che la “borghesia che rimane” vuole percorrere è una via senza sbocco: destinata a infrangersi non solo contro il suffragio universale che non può così ben essere determinato come vorrebbero i demiurghi post 1994… Ma anche con il problema che questa strategia ha il fiato corto: non è altro che riprodurre caciqi su caciqi, in una continua coazione a ripetere. Con in più il fatto che questa volta il declino della politica come bene comune sarebbe veramente inarrestabile… In definitiva, ma è impensabile parlarne ad alta voce, (non è permesso), in definitiva, occorrerebbero nuovi partiti: veri, ossia classici partiti à la Duverger, forti per autorevolezza e non per patronage, istituzionali, insomma, in grado di istituzionalizzare la politica e non di farla dipendere in forme così macabre dalla società civile. È questo che servirebbe a ciò che rimane della borghesia italiana per assicurare stabilità e non fibrillazione, rispetto delle regole neo autarchiche a livello europeo e non trucchi contabili alla greca: insomma un modo d’ agire in un nuovo Zollverain dettato dall’euro e dalla Bce.
Ciò che rimane, per rimanere e per non scomparire avrebbe bisogno, lo ripeto, di nuovi partiti all’ antica, nonostante tutto il Twitter e il Facebook del globo: partiti face to face o rank and file, sicuri affidabili, collaudati…Un lungo lavoro. Ma ci si ferma prima d’iniziare anche se si scompare: Perché? Ma perché quei partiti, a “ciò che rimane” toglierebbero il fucile dalla spalla che già tremola e s’ incrina. È un vero dilemma…mentre si scompare…pieni di paura.
Giulio Sapelli