C’e grande attesa per la Libia che verrà. Anzi, tutti sperano che arrivi il più in fretta possibile.
La recente vittoria dei ribelli ha fatto tirare un lungo sospiro di sollievo alla NATO prima ancora che a quei libici che da oltre quarant’anni sognavano una nazione democratica. Il protrarsi di questo anomalo conflitto, infatti, con i costosissimi assetti aeronavali dell’Alleanza Atlantica impegnati h24 per interdire le rappresaglie delle armate lealiste sulla popolazione civile e, al tempo stesso, la ferma intenzione di non intervenire militarmente con truppe di terra, avrebbero ben presto condotto ad una imbarazzante situazione di stallo. Ora che (a quanto sembra) il Colonnello non rappresenta più una minaccia, l’imperativo è quello di ristabilire quanto prima l’ordine all’interno del paese. Al CNT tocca dimostrare di saper fare davvero quello che fino ad ora ha rivendicato davanti alla comunità internazionale: governare la Libia. Ma non basta il saper fare, bisogna farlo in fretta. La nuova Libia dovrà essere in grado di cavarsela con le proprie forze al più presto, se si vuole evitare il peggio.
E’ stato molto chiaro, in questo senso, anche il nostro capo di stato maggiore della Difesa, il generale Biagio Abrate, che ieri a Doha, in Qyatar, ha partecipato alla riunione dei capi di stato Maggiore dei paesi coinvolti nella missione “Unified Protector”.«E’ importante il raggiungimento dell’ordine e della sicurezza pubblica in tutto il paese, innanzitutto attraverso il disarmo delle truppe irregolari e la creazione di forze armate nazionali» ha dichiarato infatti il generale italiano.
Insomma, gli “angeli custodi” della NATO, per i quali il presidente del Comitato Nazionale di Transizione libico di Bengasi, Mustafa Abdel Jalil, si è profuso in manifestazioni di riconoscenza, hanno fatto la loro parte. Mission accomplished.
Ma quanto ottenuto non basta per tornare a casa soddisfatti. Ora che il tiranno non c’è più, serve la certezza di un paese in grado di cavarsi d’impiccio da sé dagli enormi problemi che inevitabilmente gli si pareranno davanti. In primis, riportare alla normalità una nazione trasformata in un gigantesco campo di battaglia, dove da mesi si è combattuto praticamente casa per casa. In secondo luogo, contrastare le mire indipendentiste, tutt’altro che sopite, di intere regioni, come la Cirenaica, che da quando il potere assoluto di Gheddafi ha cominciato a vacillare non hanno nascosto la loro intenzione di tagliare i ponti una volta per tutte con Tripoli. Infine, ma non ultimo, convincere i paesi confinanti, e anche quelli che si trovano un po’ più in là, che la nuova Libia tricolore con la mezzaluna e la stella sarà effettivamente un vicino di casa migliore della Libia tutta verde del Colonnello. E non sarà facile con l’Algeria, che non solo non ha ancora riconosciuto l’autorità del CNT, ma proprio in questi giorni ha dato asilo a Muhammar Gheddafi e alla sua famiglia. E fare la voce grossa sin da subito per ottenere l’estradizione del clan Gheddafi potrebbe rivelarsi una scelta infelice.
Un’alternativa al motto “ordine e subito” non è nemmeno da prendere in considerazione: una Libia nel caos significherebbe guerra civile, lo spauracchio di un nuovo Iraq, un focolaio di lotte intestine in una realtà geopolitica attualmente tra le più complesse e delicate. O, incubo tra gli incubi, un ribollente vivaio dell’estremismo islamico alle porte d’Europa.
Il presidente Jalil scalpita all’idea di mettere in moto la macchina del rinnovamento, ma assieme alla riconoscenza e alle profferte di amicizia, lancia alla NATO la richiesta di ulteriori aiuti, anche militari, ancorché limitati all’addestramento dell’esercito che verrà. La nuova Libia, stando a quanto dichiarato dalla guida suprema del Comitato Nazionale di Transizione dovrà essere un paese basato sulla libertà degli individui. Ma la collaborazione delle nazioni amiche sarà ancora utile e necessaria in settori come il training di forze armate e di polizia e nel controllo delle frontiere sia marittime che terrestri.
La missione, dunque, è tutt’altro che compiuta. Dopo aver abbattuto, toccherà ricostruire. E se i paesi dell’Alleanza vogliono che la nuova Libia cammini con le proprie gambe non potranno esimersi dal continuare ad aiutarla.