Herta Muller, L’altalena del respiro, Feltrinelli,2010
I libri di Herta Muller, premio Nobel per la letteratura nel 2009, scoperta in Italia grazie alla pubblicazione di Il paese delle prugne verdi non sono letture facili. A volte il linguaggio della scrittrice rumena trapiantata in Germania è così intensamente lirico e poetico da prevaricare sulla trama, che diventa complicata da individuare, altre volte la realtà in cui si muovono i personaggi è così brutale da richiedere qualche pausa per evitare un’overdose di depressione. Il paese delle prugne verdi narra i terribili anni della Muller nella Romania di Ceausescu, l’opprimente controllo sociale esercitato dalle autorità, l’annullamento di ogni barlume di creatività, le denunce anonime, gli interrogatori…un mondo asfittico che la scrittrice riuscì ad abbandonare per sempre nel 1987 scappando “oltre cortina” nella Germania occidentale. L’altalena del respiro è un’altra storia, ma pur sempre un racconto di annichilimento e oppressione, di bestialità dell’uomo sull’uomo: la storia vera del miglior amico di Herta, il poeta Oskar Pastior, che, alla fine della seconda guerra mondiale venne deportato dai sovietici , a diciassette anni, in un Lager staliniano, dove trascorse cinque anni ai lavori forzati. La stessa sorte toccò alla madre di Herta e questo libro, scritto dopo la morte di Pastior, nel 2006, può considerarsi l’antefatto della storia di Herta, la cronaca della sofferenza da cui scaturì altra sofferenza, quasi che in quel triste paese delle prugne verdi il dolore non potesse che moltiplicarsi di generazione in generazione.
“So che ritornerai” dice la nonna al nipote Leopold Augberg, l’io narrante (alias Oskar Pastior), quando il 15 gennaio 1945 viene prelevato insieme a centinaia di altri tedeschi – tutti uomini e donne tra i 17 e i 45 anni- che, dopo l’improvvisa capitolazione della Romania, alleata di Hitler, si trovano a vivere nel paese sbagliato, in balia dell’ Armata Rossa che avanza da est. Dopo settimane di viaggio su un carro bestiame blindato, Leo e i suoi compagni vengono scaricati in un Lager in territorio sovietico dove, organizzati in battaglioni, prestano il loro lavoro, e sovente la loro vita, alla ricostruzione di ciò che i tedeschi avevano distrutto. “So che ritornerai” sono le parole che consentono a Leo di sopravvivere alla fame, al freddo, alle botte, agli incidenti e alle malattie da avvelenamento procurato dai materiali (carbone, calce, cemento) trasportati dagli internati a mani nude in massacranti turni diurni e notturni.
Per cinque anni Leo non ha notizie della propria famiglia, ma porta con sé le parole della nonna, che diventano il suo talismano: per sentirle fisicamente vicine immagina che si siano incorporate nel fazzoletto bianco che una pietosa madre russa gli dona in memoria del figlio Boris disperso chissà dove:
Obozdi, aspetta, disse la russa e portò dalla stanza accanto un fazzoletto niveo.. Me lo mise in mano e mi chiuse le dita a far segno che lo tenessi. E io non osavo soffiarmi il naso. Quello che era accaduto andava molto al di là dello scambio di merci. Riguardava suo figlio….Nel lager un fazzoletto così era assolutamente fuori luogo. In tutti quegli anni avrei potuto scambiarlo al bazar con qualcosa da mangiare. ..la tentazione esisteva, e la fame era cieca abbastanza. Quel che mi trattenne: credevo che il fazzoletto fosse il mio destino, quando ci si lascia sfuggire di mano il proprio destino si è perduti. Ero certo che le parole di congedo di mia nonna, so che ritornerai, si fossero trasformate in un fazzoletto. Non provo vergogna a dire che il fazzoletto era l’unica persona del lager che si preoccupasse di me.
Leo non indulge nell’ autocommiserazione: semmai il suo racconto è pervaso di triste ironia. Nel lager sovietico non c’è pietà per nessuno. Ma, a differenza della ineluttabile macchina di sterminio messa in piedi dai nazisti per la soluzione finale, l’organizzazione dei sovietici, orientata a sfruttare la forza lavoro con il minimo di dispendio, lascia ancora spazio alle relazioni fra i deportati e quindi a sprazzi di umanità. Ne scaturiscono così tanti malinconici, ma anche ironici, ritratti: da Edwin, il barbiere del campo, al capò corrotto e corruttibile Tur Prikulitsch, alla Planton-Kati, una donna , che grazie alla sua fragilità mentale, viene risparmiata dalle fatiche del campo.
Con un meccanismo simile a quanto immaginato da Benigni ne La vita è bella, Leo descrive le varie fasi del suo massacrante lavoro con un inossidabile senso della propria dignità di uomo: arriva persino a sottolinearne la bellezza, con l’orgoglio dell’operaio esperto, o dell’artista.
Il carbone si inizia a scaricare così: dopo che la sponda del camion è stata rovesciata in giù con fracasso, ti piazzi in alto a sinistra e colpisci di traverso il bordo, fino al fondo del cassone, e intanto premi con il piede sul ferroa cuore come se fosse una vanga. Una volta che ti sei creato uno spazio di circa due piedi sul bordo del camion da startene piantato sul bordo di legno, cominci a lavorare con la pala. A ritmo dondolante e vivace, tutti i muscoli sono all’opera. Con la mano sinistra afferri il legno trasversale e con la destra il lungo collo, in modo che le dita posino sul nodino della saldatura. Poi colpisci il carbone dall’alto a sinistra e tracciando un arco lo spingi verso il basso, fino al bordo e con il medesimo slancio, ancora giù oltre lo spigolo del bordo. A questo punto fai scivolare in alto la mano destra sul manico di legno, fin quasi all’impugnatura – mentre il peso del corpo si trasferisce sul polpaccio destro spostandosi fin nelle punte delle dita. Poi la pala torna indietro, vuota, a sinistra e all’insù. Ancora uno slancio e , nuovamente carica , scende ora da destra verso il basso . Quando la maggior parte del carbone è stata scaricata e la distanza fino al bordo si è fatta troppo grande, non si può più lavorare con slancio arcuato.Ora serve la posizione della scherma: piede destro graziosamente in avanti, piede sinistro saldamente dietro a far da sostegno,le dita girate un po’ all’esterno. Poi la mano sinistra si posa sul legno, trasversale, adesso, la destra non sta bassa sul collo ma scivola in continuazione su e giù lungo il manico, morbidamente, a bilanciare il peso…E’ bello come un tango, angoli acuti in movimento alterno e a ritmo uniforme…
Su tutto aleggia “l’angelo della fame” che trasforma in illusione di cibo qualsiasi cosa, alla peggio solo la sensazione della neve fredda in bocca, a volte qualche buccia di patata:
Succedeva spesso così, durante il secondo inverno nel Lager. Torno al mattino presto dal turno della notte, stanco morto. Adesso sono libero, dovei dormire e mi distendo e non ci riesco. I sessantotto letti nella baracca sono vuoti gli altri sono tutti al lavoro. Qualcosa mi sospinge fuori nel pomeriggio vuoto del cortile. Il vento lanciala sua neve fine mi crepita sulla nuca. L’angelo mi accompagna, a fame aperta, fino al mucchio dei rifiuti dietro la mensa. Barcollo per un pezzo appresso a lui, appeso di sbieco al mio velopendulo. Passo dopo passo seguo i miei piedi se non sono i suoi. La fame è la mia direzione, se non è la sua. L’angelo mi fa passare avanti.Non per soggezione, ma non vuole farsi vedere insieme a me. Poi piego la schiena se non è la sua. La mia avidità è rozza, le mie mani selvagge. Sono le mie mani, l’angelo non tocca la spazzatura. Mi infilo in bocca le bucce di patata e chiudo gli occhi, così le sento meglio, dolci e vitree, le bucce di patata congelate.
Dopo cinque anni, Leo torna a casa, portando con sé i fantasmi del Lager che non lo abbandoneranno mai.
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