Money never sleepsIl mio Undici Settembre

Alle 14:46 dell’11 settembre 2001 ero nel mio ufficio vicino a Knightsbridge, Londra. Era un martedì e tutti noi stavamo lavorando. A quel tempo, in cui non esistevano né Twitter né Facebook, per a...

Alle 14:46 dell’11 settembre 2001 ero nel mio ufficio vicino a Knightsbridge, Londra. Era un martedì e tutti noi stavamo lavorando. A quel tempo, in cui non esistevano né Twitter né Facebook, per avere le informazioni c’erano due modi. Se si era in ufficio si poteva contare sulle agenzie stampa, ma se si era fuori, la cosa migliore erano i servizi di sms in abbonamento. Ricordo nitidamente cosa mi arrivò sul cellulare alle 14:56, dieci minuti dopo il primo attentato alle Twin Towers di New York City: «Aereo si schianta contro Torri Gemelle di NY». Il primo pensiero fu quello di un velivolo da turismo che, per errore, finì per collidere contro una delle torri del World Trade Center. Non so nemmeno perché pensai quello. Forse perché mi pareva impossibile una barbarie come quella che in realtà fu. Tempo di accendere la mia tv e un secondo aereo trafigge il WTC. Il primo pensiero va alla grandezza dell’aereo: impossibile che fosse un errore umano, impossibile che fosse un film. Il secondo pensiero va a Wall Street. Capiamo immediatamente che, per la caratura dell’attentato, l’avrebbero chiusa entro poche ore. Decidiamo di vendere tutti gli asset statunitensi in portafoglio per prendere oro. È vero, non c’erano notizie, ma qualcuno doveva pur mantenere il sangue freddo e in questi casi, l’unica cosa razionale da fare è quella che tutti stavano facendo: chiudere le posizioni americane e portare tutto in Svizzera o sull’oro. Non importavano i morti, non importavano le ragioni dell’attentato, non importavano le risposte politiche. Quello che avevamo di fronte era quanto di peggio può capitare a un operatore finanziario.

Nessun crollo, nessun default, nessuna bancarotta arriva senza segnali. L’Undici settembre è invece arrivato così, senza preavviso. E l’unica cosa da fare per aiutare gli Usa a ripartire nel dopo 11/9 era solo una: vendere gli asset statunitensi per preservare i nostri portafogli. In un qualche modo, la liquidità e gli investimenti sarebbero tornati verso Wall Street. Ma non ora. Non in mezzo all’incertezza. Non in mezzo al WTC che si ripiega su se stesso come un castello di carte.

Tutti siamo preparati a una crisi finanziaria. Gli squilibri nei prezzi si vedono, si percepiscono, si cavalcano. Ma nessuno di noi era pronto all’11/9. E mi fa ridere che negli ultimi quattro anni di crisi siano aumentate a dismisura le Cassandre, come Nassim Nicholas Taleb, l’autore de «Il Cigno Nero». Più che i subprime, il vero Black swan della finanza, quell’evento assolutamente fuori da ogni pensiero, è stato l’Undici settembre. L’America era il posto più sicuro al mondo. Certo, c’erano state delle falle in un sistema di sicurezza nazionale considerato vicino alla perfezione, come ha dimostrato Oklahoma City. Nessuno avrebbe però mai ipotizzato una simile devastazione a Wall Street, nel cuore della finanza mondiale. Mi ricordo perfettamente una frase di un mio collega: «Le cose sono due: o siamo ufficialmente in guerra o il potere degli Stati Uniti è finito». La storia ci ha dimostrato che la seconda opzione era quella da prendere in considerazione. E qui si arriva ai giorni nostri, con la crisi europea che rischia di far morire i sogni di un’Ue unità che i politici facevano negli anni Cinquanta.

Non è difficile trovare dei parallelismi fra l’Undici settembre e l’attuale crisi del’eurozona. Ora come allora tutti noi ci siamo ritrovati senza certezze. Ora come allora l’unico appiglio su cui ogni persona sana di mente può decidere di andare è l’oro. Ora come allora è stato fatto così. Ora come allora si è deciso di allocare buona parte delle risorse in Svizzera, l’unica nazione mondiale inattaccabile. Troppi gli interessi a non farlo, troppo il rischio nel farlo. A dieci anni di distanza da quello che è stato il peggiore attentato della storia contro l’Occidente, quest’ultimo deve fare i conti con lo stesso problema identitario.

La crisi subprime ha messo in ginocchio gli Stati Uniti e lo stesso concetto economico di cui sono stati per decenni il massimo esempio di sviluppo. Il capitalismo non è morto, anzi. Sta mutando, sta assumendo una forma diversa, ma è sempre vivo. Del resto, non v’è nulla che come il capitalismo può portare benessere dove c’è miseria. Così è stato per tutte le nazioni che si sono avvantaggiate economicamente della fine dello strapotere statunitense. Questo processo, tuttavia, è ancora in corso. La crisi europea dei debiti sovrani sta diventando quello che per gli Usa è stato l’Undici settembre, ovvero un turning point storico.

Ora come allora si sente lo stesso profumo frizzante del cambiamento. Dopo almeno 20 anni di sole parole, anche l’Europa sta facendo i conti con sé stessa. Al posto degli aerei kamikaze, ci sono i debiti sovrani. Nella sostanza, poco cambia. Le vie, per l’Europa, possono essere solo due: o si va verso una maggiore integrazione o si va tutti a casa. E l’opinione prevalente nei corridoi di Bce e Commissione Europea è la prima. Certo, ci vorranno dei sacrifici, tanti sacrifici, esattamente com’è stato per un’America colpita nel profondo. Gli Usa erano sicuri di essere invulnerabili e si sono dimostrati ben più deboli di tante altre nazioni, ma hanno saputo rialzare la testa e riprendere il loro cammino. Allo stesso modo, l’Europa dovrebbe fare lo stesso: dimostrare una volta per tutti di essere quello che proclama. Altrimenti, tutti a casa e buonanotte a sessanta anni di ricerca di integrazione fra Stati.

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