Cosa riflette lo specchio quando ci mettiamo a guardarlo?
La risposta è meno ovvia e prevedibile di quanto si pensi. E forse non è una sola. Di una cosa però possiamo essere certi: l’unico a non conoscerla è proprio lui, lo specchio, ma ciononostante non smettiamo mai d’interrogarlo, nemmeno per un giorno.
Il fatto che questo quesito duri per tutta la vita è a mio avviso molto interessante.
Rivolgersi allo specchio non significa soltanto guardarsi, bensì qualcosa di più profondo: significa cercarsi. Lo specchio, infatti, ci permette di scoprire ciò che possiamo essere, ciò che possiamo divenire.
Specchiarsi non significa vedersi come ci vedono gli altri, ma crearsi una propria immagine, farsi l’autoritratto, compiere un gesto di autodeterminazione e di affermazione della propria libertà.
Con l’avvento della fotografia la tecnica manuale dell’auto-raffigurazione, mediante l’utilizzo di specchi o altre superfici riflettenti, è stata sostituita da un automatismo.
Un dispositivo rivoluzionario come l’autoscatto oggi ci consente di guardarci senza vederci, di scegliere una messa in posa senza doverla controllare nell’inquadratura.
L’obiettivo, anche quello minuscolo dell’iPhone, diventa così il nostro primo interlocutore immaginario a cui possiamo rivolgere domande intime e private, ma soprattutto l’occhio di un pubblico futuro che dovrà accettare quello che vogliamo essere.
Non si tratta solo di una piccola illusione personale, ma addirittura di una grandiosa finzione collettiva dove gli attori non sono mai e poi mai disposti ad abbandonare il palcoscenico, dove le repliche sono prove di valore e di distinzione.
Sia chiaro però, questo tipo di figura recitante, a meno che non sia affetta da gravi disturbi psichici, è sempre consapevole di essere immersa in un grande gioco di gruppo da cui trae piacere e gratificazione. L’indagine e la costruzione di un personaggio infatti non solo potenzia l’espressione del desiderio interiore, ma fissa anche le condizioni necessarie per instaurare una relazione positiva con gli altri, un dialogo fra le parti, allo scopo di costruire una comunità e, in un senso più ampio, una civiltà.
In quest’epoca le applicazioni digitali hanno consentito l’accesso a piattaforme comunitarie molto allargate in termini di scambi, visibilità e condivisione. Attraverso i vari sistemi di autofotografia presenti sui Social Network, non stiamo assistendo, come molti profetizzano, ad alcuna pericolosa deriva narcisistica pronta a degenerare in deliri e megalomanie, ma all’ammortizzamento ironico, scanzonato, ossia pienamente cosciente, di tali eventuali minacce.
In un certo senso l’uso internautico dell’autoritratto allena la capacità “plastica” dell’io, la sua mutevolezza, la sua vasta gamma di opzioni ludiche: sdoppiamenti, travestimenti, metamorfosi, parodie e stereotipi.
Questa mania camaleontica non ci deve inquietare anzi, ci deve rassicurare. Solo gli idioti o i dittatori mantengono un unico volto immutabile.
La disinvoltura con cui tanti, soprattutto i più giovani, si appropriano delle maschere più disparate non deve indurci a credere che le loro siano personalità turbate, disperse e divise, al contrario, il loro “io” è coeso, perché arbitro della propria volontà, perché non si fa paralizzare dalle certezze assolute, ma anzi le de-costruisce, le disfa come una Penelope tessitrice instancabile. E grazie a questa tensione incessante rigenera la sua esistenza.
Di recente Mathieu Grac ha analizzato questi comportamenti nel progetto Boyz and Gorlz du net: una miscellanea di autoscatti da poter inserire in un profilo-utente di Facebook. Molti li hanno colpevolizzati. Forse è giunto il momento di farci una bella risata.
PS: Questo blog riapre dopo più di un mese di pausa. Esprimo la mia gratitudine a chi ha voluto e saputo aspettare.