“Basta tassare i redditi, tassiamo le rendite!”. Non passa giorno che qualcuno non si alzi a proclamarlo. Inclusi coloro che dovrebbero ben sapere che, anche etimologicamente, reddito e rendita sono la stessa cosa.
“La ‘rendita’ è il pagamento per l’uso di una risorsa, che sia terra, lavoro, impianti [equipment], idee, o anche denaro. Tipicamente, la rendita per il lavoro è chiamata ‘salario’; il pagamento per la terra e per gli impianti è spesso chiamato ‘rendita’; il pagamento per l’uso di un’idea è chiamato ‘diritto d’autore’ [royalty]; e il pagamento per l’uso del denaro è chiamato ‘interesse’”.
(A. Alchian, The New Palgrave: A Dictionary of Economics”)
Questa è ben lontana dall’essere un’accademica questione di parole. Sotto c’è la fumosissima e dannosissima idea secondo cui il reddito da lavoro è “produttivo” mentre la rendita è “improduttiva”. Ad aggravare l’errore si aggiunge la confusione tra rendita e rendita di posizione. Quest’ultima è l’extra reddito percepito da chi, godendo di qualche forma di restrizione della concorrenza, ottiene un pagamento superiore a quello che percepirebbe in condizioni concorrenziali. Ne viene fuori un guazzabuglio secondo cui il losco rentier è uno che 1) non fa niente 2) non produce ricchezza 3) guadagna in misura eccessiva e immeritata. Tassiamolo!
Facciamo qualche esempio di rentier. Il signor Rossi possiede un appartamento, che dà in uso al signor Verdi in cambio di un canone di affitto. Il canone è il pagamento fatto da Verdi a Rossi a fronte di un servizio di locazione. Verdi paga un servizio, esattamente come quando va dal barbiere a tagliarsi i capelli. In che senso il canone d’affitto percepito da Rossi è “improduttivo”? Rossi produce un servizio di locazione, e se il mercato degli affitti è (come è) concorrenziale, il pagamento avviene al prezzo di mercato. In che senso è un compenso “eccessivo” o “immeritato”?
La signora Bianchi possiede un’obbligazione della Repubblica Italiana. Ha cioè prestato i suoi risparmi allo stato italiano, che in cambio le paga periodicamente una cedola di interesse fino alla scadenza del prestito. La cedola è il pagamento fatto dallo stato italiano alla signora Rossi a fronte di un servizio di prestito di denaro, effettuato nel mercato più concorrenziale che c’è. In che senso la cedola è improduttiva? O eccessiva, o immeritata?
Il cantautore Francesco ha scritto molti anni fa una canzone di successo, che ancora oggi viene ascoltata in radio, CD e mp3. Per questo Francesco percepisce un compenso. In che senso il compenso di Francesco è improduttivo, eccessivo, immeritato?
Certo, i redditi del signor Rossi, dalla signora Bianchi e di Francesco non sono redditi da lavoro, ma redditi da capitale. E allora? L’idea che il lavoro sia l’unica vera fonte di ricchezza è un retaggio, spesso inconsapevole, di teorie economiche errate, e perciò morte e sepolte. Il capitale, al pari del lavoro, è un fattore di produzione di beni e servizi, e come tale viene remunerato. In mercati concorrenziali, la remunerazione del capitale non è né eccessiva né immeritata. Né, tantomeno, improduttiva.
Bene – si dirà – ma allora perché non tassare i redditi da capitale alla stessa stregua dei redditi da lavoro? Giusta domanda. Alla quale però la teoria della tassazione ottimale dà una risposta non ovvia – discutibile e discussa, ma fondata su solidi argomenti – secondo cui non solo ha senso tassarli diversamente, ma addirittura i redditi da capitale non dovrebbero essere tassati affatto. Prima di sbottare indignati leggete qui.
Ma la confusione sulla rendita non si ferma qui. Chi considera la rendita come il frutto di un ingiusto privilegio va oltre, e – specie in questi tempi oscuri – vorrebbe veder tassati non solo i redditi da capitale, ma il capitale stesso. Cresce così il coro: “Facciamo la tassa patrimoniale!”. Ora – a parte che sarebbe ora di abbandonare un vocabolo che viene dai tempi in cui il patri-monio passava di padre in figlio maschio, mentre alla figlia femmina non restava che il matri-monio – una tassa sul capitale è del tutto contraria all’obiettivo della tassazione ottimale. Che – sorpresa? – non è “arraffa più che puoi, quando puoi”, ma la massimizzazione del benessere sociale. Che è indiscutibilmente proporzionale alla quantità di capitale esistente, la cui formazione andrebbe quindi incentivata e non decurtata.