L’agente MormoraDacci oggi il nostro strazio quotidiano

Semplicemente, con l'arroganza di chi sfida il silenzio e si consegna alle parole, per dire che morire di passione - com'è accaduto oggi a Marco Simoncelli - è un gran peccato: un contrappasso malv...

Semplicemente, con l’arroganza di chi sfida il silenzio e si consegna alle parole, per dire che morire di passione – com’è accaduto oggi a Marco Simoncelli – è un gran peccato: un contrappasso malvagio e immeritato. Forse anche necessario, talvolta.

E su questo potremmo forse riflettere. Contano l’anagrafe e la fotogenia, l’accento strascicato, il trapasso in diretta, il singhiozzo degli affezionati, l’inspiegabilità del caso, l’agonia del campione talentuoso, il tramonto di un mito riccioluto. Conta soprattutto l’istante fatale che esclude dalla Gara: quella sbandata sul cantiere della propria esistenza. Perchè, tutto sommato, di morte bianca si tratta – di un addio brutale ad un operaio delle due ruote.

Capita purtroppo in tutti i mestieri di imboccare male una curva e scivolare lungo la vita come fosse una lamina d’asfalto bollente e grandi soddisfazioni incompiute; è una storia che hanno scritto dozzine di penne. Andarsene in sella ad un bolide alla domenica è però un collasso disastroso, una messa catodica che inchioda noi tutti alla realtà – ce n’è bisogno: credetemi. Alla marmorea certezza dell’urgenza di mettersi in moto, perché c’è estrema fretta di vita.

Tanto diremo, questa volta e pure le altre, sulla bellezza dei vent’anni, sul “muore giovane chi è caro agli dei”, su come sarebbe stato il futuro per chi si è giocato il presente. Ci sfideremo al coccodrillo più arguto. E tireremo in ballo quell’osceno eroismo del martirio – che è prosa scioccamente retorica ed autoreferenziale. Eppure, da Sepang, la sconvolgente caduta e l’abbraccio della mestizia sorprendono perchè capaci di commuovere chi di sport capisce zero.

Ma forse comprende come innamorarsi di un sogno fino a finirci dentro, per sempre, è circostanza indescrivibile, straordinariamente poetica e – chissà – “Dio bo’, che bella”. Non vana, perchè rara. Perchè testimonia, in estrema sintesi, che la gloria – un concetto oggi inquinato da ambizioni banalmente scosciate – è il tributo antico e supremo riservato a chi, dentro al mestiere che fa, ci mette tutto. Compresa la vita.

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