A poco meno di un anno di distanza dalla liberazione di Aung San Suu Kyi, leader di Lega Nazionale per la Democrazia (Lnd) e icona del movimento democratico birmano, le autorità di Myanmar hanno concesso un’amnistia per oltre seimila detenuti. Tra questi, anche duecento ‘prigionieri di coscienza’ sebbene da sempre, sia l’ex giunta militare che l’attuale Repubblica dell’Unione di Myanmar, li consideri dei criminali comuni.
Una decisione che ha avuto un forte impatto mediatico, almeno sul piano internazionale, e che precede di poche settimane il summit ASEAN (Associazione delle Nazioni del Sudest asiatico), dove i rappresentanti dei dieci Paesi dovrebbero decidere se sostenere o meno il turno di presidenza birmana dell’Associazione nel 2014.
L’annuncio del presidente Thein Sein ha fatto immediatamente il giro del mondo quando tra i nomi degli amnistiati si è letto anche quello di Ko Thura, alias Zarganar. Il noto attore e regista satirico birmano, era stato arrestato nel 2008 e condannato a 59 anni di carcere, ridotti poi a 24. La sua colpa era stata quella di denunciare in interviste a media esteri l’inefficienza delle autorità birmane nella gestione degli aiuti alla popolazione colpita dal ciclone Nargis nel maggio del 2008. Lui stesso si era speso personalmente in appelli e azioni per dare manforte alle centinaia di migliaia di sfollati abbandonati a loro stessi.
Zarganar, però, è solo il volto e il nome più noto tra gli attivisti liberati in questa occasione. Personalmente vorrei spendere una parola in più per le trenta donne che hanno rivisto finalmente la luce. Sì, perchè anche in questo caso, Suu Kyi è solo la più nota e carismatica tra loro. Ma sono decine, centinaia, se non migliaia le donne birmane che da anni lottano contro uno dei regimi più longevi del pianeta. Costrette a vivere in stanzoni di 30 metri per 40 anche in sessanta e con un’unica toilette. Costrette a dover fare affidamento sulle proprie famiglie per ricevere anche le cure mediche di base.
Quasi sempre, le autorità trasferiscono li detenuti arrestati per ragioni politiche in istituti situati in zone remote del Paese, costringendo i familiari a sostenere lunghi e costosi viaggi. Viaggi che si concludono spesse volte con il pagamento di una mazzetta per far entrare tra le sbarre viveri, suppellettili e medicinali. Come Suu Kyi lo scorso 13 novembre, il primo pensiero di queste donne è andato “ai colleghi e colleghe ancora in carcere”. Nella speranza che un giorno i birmani tutti saranno liberi di scendere in piazza e gridare al mondo il proprio dissenso senza il rischio di essere arrestati o peggio ancora, uccisi.
November in Myanmar – The release of Aung San Suu Kyi from Roberto Tofani on Vimeo.