Come l’aria, il debito è ovunque, anche se non ci facciamo caso. Poi, a un tratto, diminuisce la disponibilità del credito, e ci rendiamo conto che avremmo bisogno di indebitarci. Da questa affermazione, solo apparentemente provocatoria, prende le mosse Margaret Atwood per la sua suggestiva genealogia concettuale di una nozione così ovvia da risultare sfuggente. Da qualche tempo ci troviamo proprio in una di quelle situazioni in cui indebitarsi diventa più difficile, e dunque il “lato oscuro della ricchezza” – come lo chiama la Atwood – si impone alla nostra attenzione. Forse ci voleva proprio una scrittrice di raffinata sensibilità come la Atwood per aiutarci a riconoscere ciò abbiamo continuamente davanti agli occhi, ma facciamo fatica a vedere perché poco allenati a guardare. Eppure, buona parte delle cose che facciamo sono rese possibili dalla nostra capacità di indebitarci. Contrarre un mutuo per acquistare una casa. Pagare l’automobile a rate o usare la carta di credito per comprare un regalo di compleanno sono attività del tutto ordinarie. Tanto normali che non perdiamo troppo tempo a riflettere sulla rete di relazioni e di interazioni che sorreggendole le rendono possibili. Una rete fitta, che non riguarda soltanto i rapporti tra i privati. Anche ciò che è pubblico dipende in larga misura del debito. Contratto dai governi per finanziare la spesa per beni pubblici come l’assistenza sanitaria o l’istruzione, la manutenzione delle strade o la tutela dell’ambiente. Per questo il “credit crunch” ci preoccupa. Se il credito si contrae diventa più difficile indebitarsi, e la vita diventa dura per tutti.
Uno degli aspetti più interessanti del libro della Atwood, Payback. Debt and the Shadow Side of Wealth (Bloomsbury, Londra 2008) è la ricostruzione del legame concettuale tra il debito e il senso di giustizia, alimentato dalle aspettative di reciprocità. Chi concede un credito si assume un rischio, quello di non rientrare in possesso di ciò che gli appartiene, o di un equivalente. Per questo dovrebbe essere prudente, e concederlo soltanto se si fida del debitore. La disponibilità del creditore può essere facilitata dalle garanzie che ottiene in caso di mancato pagamento, ma non dovrebbe essere mai del tutto svincolata dalla fiducia dell’affidabilità del debitore. Ovvero nel suo impegno a restituire ciò che ha ricevuto a “tempo debito” e nella sua capacità di farlo. Nella letteratura sull’attuale crisi finanziaria sono diverse le voci che sostengono che tra le sue cause remote ci sia stato il rilassamento dei vincoli di prudenza che dovrebbero guidare le scelte dei creditori istituzionali. La concessione di mutui immobiliari a persone che non erano in grado di pagarli, sorretta dall’assunto irragionevole che il mercato fosse destinato a crescere senza limiti.
Un fallimento del capitalismo, come ha scritto Richard Posner, uno degli esponenti più illustri del movimento noto come “Law and Economics” in suo libro recente, A Failure of Capitalism (Harvard University Press, Cambridge, Mass. 2009). Innescata, come ha sostenuto Raghuram G. Rajan, uno dei pochi economisti che avevano messo in guardia la comunità internazionale dal pericolo costituito dalla “bolla immobiliare” che cresceva senza controllo da qualche tempo, dalla politica di diverse amministrazioni statunitensi – repubblicane e democratiche – di facilitare l’accesso dei privati al credito immobiliare per attenuare la percezione della disuguaglianza in una società in cui le distinzioni sociali tra chi ha tanto e chi ha poco si accentuano. Nel suo libro, Fault Lines (Princeton University Press, Princeton N.J. 2010), Rajan mostra che c’è un legame tra la riluttanza ad affrontare questo problema di giustizia attraverso misure redistributive e le tendenze che ci hanno condotto nella situazione in cui ci troviamo attualmente. Osservazione che conferma la rilevanza della giustizia per regolare l’accesso al debito come metodo per generare ricchezza.
Lo scavo concettuale della Atwood non è troppo condizionato dall’attualità, ma cerca di portare alla luce la necessità del debito nelle società umane. Testimoniata, nelle culture antiche di diversi continenti, dai rimandi tra il lessico dell’economia e quelli della religione e dell’etica. “Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori” è una formula antica che ricorda la legge ebraica che prescriveva periodiche cancellazioni del debito il cui scopo era verosimilmente di rinsaldare il legame sociale. Obiettivo che, in piccole comunità, era realizzabile senza mettere in pericolo un’atmosfera di fiducia nella solvibilità del prossimo. Una politica cui i governi invece ricorrono con comprensibile trepidanza quando il debitore è un’entità sovrana. Un fenomeno cui abbiamo già assistito nella storia europea recente quando le potenze vincitrici della prima guerra mondiale si rifiutarono di ascoltare gli avvertimenti di Keynes che le esortava a “rimettere” almeno parte del debito di guerra alla Germania sconfitta. Anche se la storiografia più recente ha messo in dubbio l’assunto di Keynes che la Germania non fosse in grado di onorare il proprio debito, non c’è dubbio che in quel caso l’indisponibilità dei creditori a venire incontro al debitore sia stato uno dei fattori causali che hanno contribuito a innescare una crisi dagli esiti drammatici. Un precedente su cui riflettere oggi, quando è la Germania a essere nella posizione del creditore riluttante.