La lettera inviata dal Governo, destinazione Unione Europea, continua a tenere banco, specialmente sulla questione dei cosiddetti “licenziamenti facili”. Su questo punto vi è stato un tira e molla che va avanti da mesi, su cui più volte il mondo delle imprese ha fatto leva trovando -manco a dirlo- l’opposizione dei sindacati. Nella lettera sopra menzionata, è fatto riferimento esplicito alla libertà d’impresa, sostenendo che bisogna guardare con favore alle aziende che rischiano e credono nella crescita. La libertà di licenziare, soprattutto quando un’azienda è in crisi, per procedere ad una ristrutturazione della pianta organica e per garantire maggiore produttività marginale del lavoro è stata vista di buon occhio da più parti(http://www.linkiesta.it/blogs/post-silvio/ma-davvero-licenziare-e-un-crimine).
Lasciando adesso la libertà al lettore di stabilire se questa proposta possa davvero facilitare il ritorno alla crescita, vorrei fare un piccolo excursus storico sul concetto di flessibilità del lavoro. E’ agli inizi degli anni ’90 che iniziò ad espandersi il lavoro interinale-derivante dal latino interim, cioè provvisorio-; una forma di lavoro che si cerca di promuovere perchè si avverte il bisogno di garantire maggiore flessibilità, appunto, nel mercato del lavoro. Significativa in tal senso è stata la Legge Treu del ’97(http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1996/07/18/arriva-il-pacchetto-occupazione.html) che subirà poi alcune modifiche nella Legge Biagi.
La flessibilità, in teoria, dovrebbe prevedere un costante miglioramento del knowhow di imprese e lavoratori, e dovrebbe offrire la possibilità di non incorrere in un unico lavoro, che a lungo andare potrebbe sfociare nella monotomia. Tale concetto però, viene comunemente confuso(forse volontariamente), e tramutato nel termine precario, ovvero quando mancano elementi di stabilità. La stabilità, invero, viene intesa dalla giurisprudenza come un diritto del lavoratore ad avere un orario di lavoro abbastanza circoscritto, delle mansioni ben delineate, ed una sede di lavoro più o meno delimitata. Insomma di tutto un pò concetti sulla via dello smarrimento in Italia(ma non solo).
Recentemente viene introdotto il concetto europeo di flexisecurity, o flessicurezza, per garantire al mercato del lavoro grande mobilità verticale ed orizzontale, forme di contratto a tempo determinato ed uso molto frequente di stage, tirocini e forme analoghe. Questo nuovo concetto però, ha mostrato i suoi benefici in poche realtà, come ad esempio i paesi baltici(Danimarca e Svezia), mentre in Italia, la forma di lavoro temporaneo ha avuto come unico effetto quello di ritardare gli investimenti, diminuendo al tempo stesso innovazione e competenze imprenditoriali, frenando anche la produttività del lavoro(http://www.lavoce.info/articoli/-lavoro/pagina1002558.html).
Recentemente anche Draghi è intervenuto sulla questione ribadendo che “senza la prospettiva di una graduale stabilizzazione dei rapporti di lavoro precari s’indebolisce l’accumulazione di capitale umano scientifico“. La forma di lavoro a tempo indeterminato infatti, è in costante diminuizione da svariati anni a questa parte. Ma in sostanza, per favorire la crescita e garantire maggiori possibilità per chi ha voglia di mettersi in gioco, ci sono altre riforme –tutte a costo zero- che l’attuale governo non ha preso affatto in considerazione.
1. Una riforma del sistema scolastico, in particolar modo universitario, che possa favorire l’inserimento degli studenti nel mondo del lavoro. Troppo spesso si termina il percorso di studi, magari con una laurea triennale, senza alcuna competenza pratica per affrontare una qualsiasi prestazione lavorativa; tanta teoria, ma pochissima(per non dire nulla) pratica. Prendendo a modello il sistema tedesco, creare delle scuole di specializzazioni che garantiscano agli studenti un raccordo immediato tra scuola e lavoro; per esempio, facendo alternare, periodi di formazione in aula con esperienze lavorative in azienda, in modo che il candidato apprenda sin da subito le tecniche lavorative, e l’impresa può già scegliere il futuro lavoratore in base al periodo di “prova”. Certo, questo è una riforma che permetterà di vedere i vantaggi a lunga durata, ma permetterà una volta attuata, di abbattere quell’odiosa distanza tra scuola e lavoro.
2. Liberalizzazione degli ordini professionali; un governo che si dichiari liberale “all’ennesima potenza”(e ne fa anche un motivo di vanto) non può permettere di avere tali strutture oligarchiche e stataliste. Attualmente sono circa una trentina gli albi professionali, che di fatto offrono spesso informazioni e consulenze scadenti, e penalizzano i consumatori che hanno poca possibilità di scelta. Una trasformazione degli ordini in libere associazioni senza obbligatorietà d’iscrizione e con l’eliminazione delle tariffe minime, permetterebbe di accedere facilmente al mercato i giovani professionisti creando maggiore concorrenza.
3. Un’altra riforma, a costo zero, di vitale importanza per lo sviluppo economico è la razionalizzazione della pubblica amministrazione italiana. Anche la Bce ha ammonito l’Italia su questa questione, e persino il presidente dell’Antitrust è intervenuto sulla questione(http://www.01net.it/articoli/0,1254,14_ART_9006383278,00.html). Instaurare dei criteri di trasparenza e soprattutto premiare i lavoratori pubblici che non si nascondano dietro le ottusità burocratiche, ma che capiscano le esigenze di imprese e famiglie, in modo da non essere quell’apparato burocratico sprecone, capace di causare perdite per decine e decine di miliardi di euro.