La pelle di zigrinoIl supplente

Con tempi consoni alla gravità del momento, l'Italia ha un premier in pectore, il prof. Mario Monti. Non pochi commentatori hanno alzato il sopracciglio proponendo analogie con altri governi del Pr...

Con tempi consoni alla gravità del momento, l’Italia ha un premier in pectore, il prof. Mario Monti. Non pochi commentatori hanno alzato il sopracciglio proponendo analogie con altri governi del Presidente, che peccherebbero di un deficit di democraticità.
Ora, la nostra è e resta una repubblica parlamentare, dove i cittadini eleggono il Parlamento che, nelle forme previste dalla Costituzione, vota la fiducia all’esecutivo. Il mito dell’elezione diretta del premier è infondato giuridicamente, nonostante l’illusione data dalle schede elettorali.

Ma l’incarico al prof. Monti – a proposito: auguri vivissimi, ne ha bisogno – dovrebbe dire molto di più non tanto ai commentatori dei fatti politici, ma ai primattori della politica italiana.

Le dimissioni di Berlusconi sono state accolte da scene di tripudio e vari caroselli, invocando una immaginifica liberazione. In realtà, più che il giorno della novella liberazione, il 12 novembre dovrebbe essere il giorno della disperazione, o quantomeno della rassegnazione rispetto al futuro prossimo.

Sempre che il governo Monti riesca ad ottenere un’ampia base parlamentare, infatti, l’agenda dei prossimi mesi sarà un’agenda da stato d’emergenza. Senza attenuanti e vie di fuga.

Monti dovrà essere messo nella condizione di poter fare ciò che gli esecutivi politici puri non hanno voluto fare (perchè non vi è nessuna ricetta segreta per tentare di sistemare l’economia italiana che è malata di scarsa crescita da ormai troppo tempo). Nè i governi Berlusconi, che hanno goduto di maggioranze parlamentari solidissime ed omogenee, né i governi di centro-sinistra, vittime dei dissidi ideologici interni, hanno saputo esser all’altezza del proprio compito. Il primo biennio del governo Prodi, nel 96-98, sembrava più la coda dei governi tecnici che lo avevano preceduto che non un governo politico in senso proprio. Sappiamo come andò a finire.

Il nostro paese ha provato sulla propria pelle ciò che Norberto Bobbio chiamava “il paradosso della democrazia”: ovvero la difficoltà che una classe politica affronta nel procedere secondo un indirizzo di riforme, spesso anche dolorose, e la necessità, per i politici, di ottenere il massimo suffragio ed appoggio elettorale. I tempi della democrazia, intesa come rinnovo periodico del parlamento, non coincidono con i tempi che le scelte di riforma strutturale richiedono prima di poterne saggiare i risultati.
La politica italiana, in particolare, ha dimostrato la propria inadeguatezza nell’affrontare le necessità di adeguamento del nostro paese in materia di concorrenza interna, di rimodulazione delle tutele del lavoro, di riforma del sistema di protezione sociale, di prolungamento delle aspettative di vita e della conseguente sostenibilità dei sistemi previdenziali.
Ci si era colpevolmente illusi che l’ancoraggio all’euro garantisse la stabilità del paese. Ciò valeva per i fondamentali macro-economici. Ma il virtuosismo che l’euro imponeva nella gestione della finanza pubblica – coi corrispondenti benefici, primo tra tutti il ridotto costo di indebitamento dello Stato – non era di per sé sufficiente a curare i mali dell’economia italiana. Dell’economia degli scambi tra operatori privati, siano essi lavoratori ed imprese, consumatori e professionisti.

Il peccato della politica italiana è stato l’essersi condotta da accidiosa, evitando di scegliere per non scontentare un umorale elettorato.

Così, e come altre volte accaduto in passato, si è imposta una scelta che è politica nella forma, che si spera lo sia nella condivisione dello sforzo, ma che accolla la responsabilità dell’azione su una compagine di governo che sappia dimostrarsi autorevole e competente per compiere, scontentando i più, quell’agenda di riforme oggi non più procrastinabile. Consapevole di non dover affrontare il prossimo giudizio elettorale.

Ce la faremo? Questo dipenderà ancora troppo dalla politica e dalla sua incapacità di esercitare quella che un tempo si chiamava l’autocritica.

Se la politica, che poi vuol dire i suoi attori, si soffermassero a riflettere dovrebbero forse comprendere che l’insolito governo nascente non è frutto del destino cinico e baro, o delle tecnocrazia plutocratiche che tengono in fili della nostra vita civile e democratica. Ma è frutto dei ritardi, delle incompetenze, delle omissioni, delle distrazioni della politica.

La storia, diceva Croce, non ha da essere giustiziera ma giustificatrice. Le vicende politiche italiane dell’ultimo ventennio forniranno ampia giustificazione delle supplenze che il senso di responsabilità ha imposto.

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