In molti hanno accolto le dimissioni di Berlusconi con grida, cortei e celebrazioni da primavera araba. In realtà, e non è solo questione di stagioni, per l’Italia si avvicina un inverno assai rigido.
Altrettanti commentatori, e fin troppi politici, hanno poi azzardato paralleli storici roboanti: il 12 novembre 2011 come il 25 luglio 1943, altri ancora, più coerenti alla mitologia della liberazione, hanno parlato di un novello 25 aprile.
Ad esser onesti, non è che l’”età berlusconiana” si sia fatta apprezzare un granchè. Alle promesse di una imminente rivoluzione liberale si sono presto sostituite le modeste pratiche di governo, più determinate a rispettare le scadenze imposte dall’agenda personale del premier piuttosto che non a risolvere i molti mali di questo paese.
Tanto che oggi siamo costretti a fare in pochi mesi ciò che si sarebbe potuto e dovuto far prima.
Insomma, per evitare la gioiosa macchina da guerra di Occhetto in troppi diedero credito alla ringhiosa macchina da guerra berlusconiana (invece di scegliere l’altra alternativa moderata esistente).
Ma se incliniamo ai giudizi, un merito – forse solo quello – Berlusconi storicamente lo ebbe. E non fu l’aver sdoganato la destra (allora) missina di Fini. No: fu l’aver sdoganato in un paese intriso di cascame culturale cattolico e marxissta, l’invocazione dello spirito di intrapresa privata. Per carità, quella di Berlusconi rimase solo una declamazione, utile per ammiccare ai potenziali consensi e per gestire – in proprio – il potere politico così ottenuto. Sarebbe però ingiusto dimenticare che al tempo il solo proporre una visione della gestione dello Stato diversa da quella mainstream cattolica e marxisteggiante, come tali quantomeno diffidenti nei confronti del privato, fu un atto sicuramente innovativo. Pensare di affidare parte dell’attività gestita dallo stato ai privati era visto come un uzzolo da frequentatori dei Rotary Club. Il tutto in un paese che, è bene ricordare a futura memoria, aveva fabbricato panettoni, alfe sud, rilevato imprese decotte aggirando l’istituto tipico dell’economia di mercato che è il fallimento degli imprenditori sfortunati o inefficienti!
Correttezza di giudizio impone, poi, di evidenziare come nulla o punto seguì a quell’invocazione.
Ma un altro dato resta del pari evidente: Berlusconi tra il 1994 ed oggi è stato sconfitto elettoralmente due volte (’96 e nel 2006), e poi, pochi giorni fa, condotto alle dimissioni per quelle che un tempo erano le famigerate crisi extraparlamentari. Politicamente, però, Berlusconi, e con lui il berlusconismo, non sono mai stati sconfitti.
Intendiamo dire che chi gli si è opposto – con alterne fortune: l’Ulivo, l’Unione, il Partito a vocazione maggioritaria alleato con Di Pietro – non è mai riuscito a fornire una chiave interpretativa, un messaggio guida, una visione della politica realmente alternativa, diversa, altra rispetto a quella del Cavaliere.
Nella peggiore delle ipotesi, ci si è limitati a riconoscere a Berlusconi e al berlusconismo la stimmate dello statista col quale riscrivere la carta costituzionale, mutuarne l’interpretazione del conflitto di interessi (che avrebbe dovuto, a rigor normativo, renderlo ineleggibile già nel 1994, visto il d.P.R. 361/1957). Chi non ricorda, infatti, il modo col quale l’allora centro-sinistra al governo risolse la questione del pluralismo televisivo?: “oggi noi controlliamo come governo tre reti pubbliche, Berlusconi è il “beneficiario” delle tre principali reti private. Quindi siamo pari”. Per tacere dell’affaire Unipol-Bnl, e della difesa ad oltranza dell’allora governatore Fazio.
Ci corre l’obbligo di precisare questo non per difendere il cavaliere, anzi. Il giudizio sul suo conto – e sia consentito: il giudizio su di lui da parte liberale – è e resta durissimo e nettissimo.
Ma non ci pare che sia utile l’entusiasmo liberatorio che troppi politici dell’ex opposizione di centro-sinistra hanno facilmente sventolato. E non è utile proprio perchè assai poco credibile. Il governo Monti non passerà le consegne, in un futuro prossimo, ai vertici dell’esarchia, come fece Badoglio nel 1944 coi rappresentanti delle varie componenti politiche dell’antifascismo. Quella volta, infatti, i rappresentanti dell’esarchia (tutti: dai comunisti ai liberali, passando per democristiani, azionisti, socialisti, demolaburisti) avevano avuto alle spalle un ventennio di coerente opposizione: dall’Aventino sino al confino ed all’esilio.
Gli autoproclamatisi liberatori di oggi, invece, hanno alle spalle un discreto fallimento politico: non esser stati capaci di elaborare una proposta politica autenticamente alternativa a quella del cavaliere. Il compito non sarebbe stato, viste le colpe di Berlusconi, così difficile.
Ma questi hanno il più delle volte partecipato dei suoi stessi vizi, per non dire che sono stati vittime di un sostanziale complesso di inferiorità nei suoi riguardi.
L’Italia ha bisogno di un nuovo inizio, non solo economico ma anche politico. Perchè questo inizio sia seriamente praticabile, una cosa deve essere evitata: l’ipoteca di una novella liturgia dell’antifascismo militante – aggiornato in antiberlusconismo – coi labari, la manifestazioni, le medaglie al preteso onore, le rivendicazioni di intransigenza, tanto inutili quanto poco credibili, e l’immancabile corredo di opportunismi trasformistici, monopolizzatori e puristi dell’antiberlusconismo.
Quella liturgia che nelle mani dello spregiudicato Togliatti aveva creato lo strumento per condizionare le casematte del pensiero e della cultura, per poi scender sino alla politica spiccia. Quella stessa liturgia che nelle mani approssimative dei suoi discendenti, è buona solo per riciclare il vecchio appello al voto utile. Diciamocelo: il berlusconismo avrebbe meritato una sconfitta politica. Non sarebbe stato poi così difficile, se solo ci si fosse provato.