Sono giorni difficili per le cancellerie europee. Alle prese con una crisi economica di cui non si vede ancora la fine, e con turbolenze finanziarie e valutarie che potrebbero persino mettere a rischio la sopravvivenza della moneta unica, i governanti europei si interrogano su come venir fuori dal vicolo cieco in cui si sono cacciati. Nel breve periodo, bisogna mettere al sicuro i paesi che sono in bilico. Nel medio periodo, invece, il problema è come fare in modo che una situazione come quella in cui ci troviamo non si ripeta. Entrambi gli obiettivi non sono semplici da realizzare. Nel primo caso, la soluzione è che i paesi che non sono immediatamente a rischio mettano mano alla borsa per aiutare quelli che si trovano in difficoltà. Più facile a dirsi che a farsi, perché i problemi di bilancio dei partner in difficoltà dell’Uem sono in parte dovuti alla negligenza – per non dir peggio – di governi e parlamenti che hanno assecondato la tendenza dei propri elettori a vivere al di sopra dei propri mezzi. Angela Merkel sta avendo i suoi dispiaceri per far digerire ai tedeschi il fatto che devono pagare per gli errori commessi dai greci o dagli italiani. Non aiuta certamente la circostanza che le cicale europee sono quasi tutte nell’area mediterranea. Ai signori Schmidt, van den Brink o Andersen comprensibilmente scoccia pagare per l’incoscienza di un signor Teodorakis, Martinez o Rossi. Comunque, anche dando per scontato che le risorse si trovino, e risultino sufficienti per uscire dall’emergenza, le prospettive per il futuro non sono rosee.
Basta sfogliare la stampa internazionale per rendersi conto che le misure di cui si parla per prevenire il ripetersi di situazioni come quella attuale sono ispirate da un atteggiamento mentale che è in parte all’origine dei problemi che abbiamo oggi. Si pensi, tanto per fare un esempio, all’idea che è circolata nelle scorse settimane di sottoporre i bilanci dei paesi membri a un controllo preventivo da parte degli organismi dell’Unione prima dell’approvazione nei parlamenti nazionali. Ponendo le premesse per nuove, e potenzialmente ancor più drammatiche, tensioni tra organi rappresentativi che rispondono direttamente ai propri elettori e istanze sovranazionali che – al netto delle chiacchiere – hanno una legittimazione democratica almeno discutibile. Tra l’altro, c’è una cosa che non è chiara nel modo in cui dovrebbero funzionare questi controlli preventivi. Facciamo il caso della Grecia. In questi mesi si è detto più volte che i conti pubblici dei nostri vicini ellenici non erano del tutto trasparenti, che tra le pieghe dei bilanci si nascondevano voci di spesa pubblica del tutto irragionevoli. Questo lascia supporre che i partner europei abbiano sbagliato a fidarsi di ciò che gli esponenti del governo greco hanno dichiarato nella fase di adesione alla moneta unica. Come facciamo a evitare che casi del genere si verifichino di nuovo? Gli imprenditori sanno bene che c’è solo un modo affidabile per impedire che un partner in affari presenti “carte false” nel corso di una trattativa: controllare che ciò che dichiara corrisponde a verità. Per questo prima di una fusione si fanno le “due diligence”. Ora il problema della “due diligence” quando oggetto di ispezione non sono i conti di un privato ma quelli di un ente sovrano che ha le proprie strutture di deliberazione e controllo democratico si presenta come molto più spinoso di quel che alcuni vorrebbero farci credere.
Difficile immaginare che una cosa del genere sia possibile senza attribuire ai controllori poteri di ispezione piuttosto ampi. Siamo sicuri che un’ingerenza del genere sia politicamente praticabile? Che regga nei periodi di “vacche magre” e non solo quando l’economia tira e tutti sono ragionevolmente contenti e non fanno troppe domande? Mi permetto una certa dose di scetticismo. Se i rimedi di medio periodo sono questi siamo messi male.
Immagino già la replica: “vero, ma quel che dici mostra che c’è bisogno di maggiore integrazione politica”. Obiezione alla quale rispondo che ciò non vuol dire proprio nulla se qualcuno non ci spiega come si risolve davvero il problema del grave deficit di legittimazione democratica delle istituzioni europee. Quando le cose vanno male, la rappresentanza mediata non è più sufficiente, e le persone, per tutelare i propri interessi, si rivolgono a chi si trova a portata di piede, perché sanno che, all’occorrenza, possono prenderlo a calci. In questa prospettiva si spiega la decisione del governo greco, che ha innescato il panico nelle borse europee, di sottoporre il nuovo pacchetto di misure di austerità imposto dai partner europei a un referendum confermativo. Quando è la stessa legittimità democratica di un governo a essere messa in discussione dalla maggioranza della popolazione, non c’è da sorprendersi se chi lo guida sente il bisogno di consultare il corpo elettorale. Non farlo potrebbe avere conseguenze altrettanto gravi rispetto a un default che a questo punto sembra comunque inevitabile.
Tutto l’edificio europeo si è retto finora sull’illusione di Saint-Simon, ovvero che “il governo delle persone sarà sostituito dall’amministrazione delle cose”. Un’idea che risultava accattivante ai tecnocrati che hanno pilotato il processo di unificazione. Lo abbiamo già visto in occasione dei referendum per la ratifica del Trattato di Lisbona. Come le istitutrici di una volta, i fautori di una sempre maggiore unità hanno imposto agli elettori irlandesi di ripetere l’esercizio fino a quando non davano la risposta desiderata. Una curiosa concezione della sovranità popolare. Quel referendum è stato un campanello d’allarme. Che purtroppo ha suonato invano.