■ Chi è Paolo Iabichino?
Qualche giorno fa abbiamo avuto il piacere di intervistare Paolo Iabichino, direttore creativo in Ogilvy.
Innanzitutto abbiamo chiesto a Paolo di descriverci il percorso evolutivo dell’advertising in Italia nel corso degli anni: a suo avviso, tuttavia, non c’è stata una vera e propria evoluzione.
Dal punto di vista storiografico, la versione moderna della pubblicità comincia negli anni ’50, ’60, quando i grandi network arrivano in Italia e aprono le loro agenzie: in questo senso, quindi, la pubblicità in Italia è stata più che altro subita.
Una delle più grandi intuizioni della pubblicità italiana in chiave moderna è stata senza dubbio il Carosello, una vicenda senza pari nel resto del mondo. Le storie e i personaggi entrati ormai nell’immaginario collettivo sono legate al lavoro del pubblicitario Armando Testa, che ha creato icone ancora presenti e rilevanti nel panorama dell’advertising televisivo.
Purtroppo l’advertising italiano non gode di una grande maturità: secondo Paolo è di 15 – 20 anni indietro rispetto alle macrotendenze a cui assistiamo nel resto del mondo. In alcuni paesi vengono sviluppate campagne in maniera crossmediale a prescindere dal mezzo utilizzato, mentre in Italia il 60-70% degli investimenti va ancora nella pubblicità televisiva.
Del resto si tratta di un paese che tratta internet in maniera superficiale, vedendolo come un media e non come un habitat all’interno del quale inserire i propri messaggi.
Persino all’interno dei social network si ragiona ancora secondo la logica del GRP, quindi sebbene esistano già modalità nuove, inedite e coinvolgenti per mettere in relazione brand e clienti, il mindset è tutt’ora ancorato a logiche televisive monodirezionali.
Per fare pubblicità in maniera crossmediale è necessario dimenticarsi del canale: le campagne che funzionano meglio sono quelle che si concentrano innanzitutto sull’idea, e in Ogilvy si parla addirittura di “ideale”.
Si parte dall’idea e poi si fa in modo che i diversi mezzi che vengono attivati non si limitino a declinare l’idea di comunicazione: per integrare l’idea è necessario far sì che si usi un determinato linguaggio in funzione del mezzo in cui quell’idea si esprime.
Negli ultimi anni la pubblicità ha perso ascendente, carisma, suscitando addirittura diffidenza; secondo Paolo, tuttavia, sarebbe un errore considerare il marketing non convenzionale (viral, flash mob, guerrilla marketing) come la panacea per risolvere la crisi della pubblicità tradizionale.
Si rischia di replicare all’interno delle nuove dinamiche gli stessi errori perché si ragiona ancora in una logica di invadenza, di interruzione, e non di rilevanza.
Abbiamo chiesto a Paolo quanto sia utile fare compravendita di Fan e Like su Facebook: a suo avviso sono strumenti utili e leciti se serve massa critica per far leva su un messaggio. Il problema è che le persone non restano attaccate a lungo a un brand se non c’è costantemente interazione, dialogo e una produzione di contenuti che le faccia sentire parte della storia del brand.
L’advertising visto anche come leva di engagement, dato che continua ad avere un ruolo importante nello scenario della macroeconomia ed è il vettore principale dei consumi e dello sviluppo economico.
La pubblicità è piccola cosa in un panorama culturale, sociale, antropologico così radicalmente cambiato: in questo momento la cosa più importante è mettere al centro della scena le persone.
Abbiamo parlato di invertising, dell’importanza della ricerca scientifica nell’advertising (sia da un punto di vista tecnologico che da un punto di vista psicologico), dell’etimologia del vocabolario del marketing, del neuromarketing, analisi del sentiment e prospettive per il futuro dell’advertising nelle aziende e nelle agenzie.
Invito tutti, dunque, a visionare l’intervista integrale, molto più ricca di dettagli e riflessioni rispetto a questa mia breve sintesi.