La mattina del 26 novembre il vicepresidente della Commissione Europea Viviane Reding non ha usato mezzi termini: Facebook non può usare le informazioni che recupera dalla bacheca degli utenti per rivenderli a terzi in vista delle loro operazioni di promozione commerciale. Ma soprattutto, deve consegnare a Max Schrems, e a tutti gli utenti che ne facciano richiesta, la collezione completa delle informazioni che ha accumulato sul loro conto. Facebook è disponibile a consegnare agli utenti tutte le informazioni sulla loro anagrafica personale, sulle loro opinioni politiche e religiose, sulle loro scelte sessuali, che ha raccolto nel corso del tempo; ma rifiuta di consegnare i dati relativi ai like e alle forme di interazione calcolate da EdgeRank, connesse all’attività del soggetto sulla piattaforma. La difesa di Facebook è che queste informazioni sono tutelate dal diritto alla segretezza sulla logica di funzionamento del software dell’azienda; la replica dell’Unione Europea è rigida, ma rivela forse un malinteso di fondo nei confronti delle pretese di Facebook, capace di illuminare qualcosa su quanto la classe politica sia impreparata a comprendere il reale potere politico esercitato dai social media.
La storia comincia qualche mese fa, quando Max Schrems – uno studente austriaco di 24 anni – inoltra a Facebook la richiesta di visionare tutti i dati che la piattaforma a raccolto al suo riguardo, e ottiene in cambio un CD con un documento di 1222 pagine. Il sito Europe vs Facebook spiega come mettere in atto questo genere di richieste: la sede europea della società di Zuckerberg è a Dublino, e per la legge irlandese la consegna dei dati deve avvenire entro 40 giorni dalla ricezione della domanda. Il dossier di Max Schrems mostra tutti i dati personali immaginabili, ma l’interessato non manca di notare che dall’elenco latitano tutte le informazioni relative alle sue operazioni di socializzazione intraprese sulla piattaforma. La replica di Facebook si appella al diritto che la legge irlandese gli conferisce di non rivelare i fondamenti del software su cui si fonda il suo modello di business: la Quarta Sezione dell’Irish Data Protection Acts 1988 e 2003 permetterebbe di non consegnare le collezioni di dati da cui si potrebbe risalire al funzionamento degli automatismi della piattaforma.
Anche Facebook non ha dubbi e non usa mezzi termini: il fatto che un individuo coltivi preferenze politiche di destra o di sinistra, che abbia la scarlattina o sia sanissimo, che professi la religione cattolica o il buddhismo, che si sia riprodotto in una famiglia con cinque figli o che sia omosessuale – è molto meno rilevante del fatto che abbia cliccato su Like in qualche pagina web, che abbia commentato i post di questo o quell’amico, che abbia condiviso i link di un contatto o di un altro. Il problema è quanto è influente o quanto sia influenzabile, da chi e su quale argomento. La forma delle relazioni, la capacità degli individui di imporre l’agenda degli interessi e delle occupazioni degli altri, è la questione essenziale. Tutto il resto passa in secondo piano. E su queste faccende, Facebook non ha la minima intenzione di scendere a patti con nessuno – nemmeno con gli attori delle relazioni.
Nella sua presentazione al TED Eli Pariser ha ricordato l’esperimento da cui è nata la tesi di fondo del suo best seller The Filter Bubble. Pariser si dichiara di orientamento politico liberale, e ha notato che con il passare del tempo i messaggi dei suoi amici conservatori sono scomparsi dalla sua bacheca; una folla crescente di notizie dai contatti con convinzioni liberali ha preso il loro posto. In questo modo ogni individuo finisce per rinchiudersi in una bolla comunicativa in cui non gli è più possibile accedere ad una rappresentazione del mondo reale, ma soltanto al film di quello che vorremmo il mondo fosse. Vent’anni di esperienza berlusconiana dovrebbero averci offerto un quadro limpido di cosa significhi questa forma di illusionismo.
Ma è possibile compiere un secondo passaggio. Potremmo osservare che anche all’interno di un certo orientamento politico – chiamiamolo progressista – la descrizione della crisi economica attuale sia avvenuta prima da parte di alcuni influenzatori, poi da parte di tutti, in termini di spread tra buoni del tesoro nazionali, e in termini di debito pubblico. La pressione della circolazione di questi messaggi nella rete sociale mette sempre più in secondo piano la descrizione della situazione in termini di crisi complessiva del modello economico, e finisce per nascondere l’analisi di alcuni sintomi, come il disastro ecologico di città come Milano – dove lo stile di vita che ha alimentato quel modello ha trasformato l’atmosfera in una minaccia gravissima per la salute degli abitanti. Dall’agenda degli interessi degli utenti questi argomenti scompaiono, cancellando la possibilità di una loro mobilitazione per formulare – o anche solo per esigere – una risposta politica ai temi accantonati.
La reazione della Commissione Europea a Facebook consiste nel distinguere tra la logica del software e i dati che vengono elaborati. L’algoritmo può rimanere segreto, ma il cittadino in Europa ha il diritto di verificare l’elenco dei Like che ha cliccato e dei commenti che ha postato. Eppure questa risposta rimane nell’ambito delle “cose”: non sono i dati, ma la struttura delle relazioni tra gli attori sociali e l’intensità della loro influenza sull’agenda degli interessi degli altri a preoccupare Facebook, e a comporre l’essenza del suo software. La capacità di imporre i temi di cui ci si deve occupare e su cui bisogna agire, e quella di eliminare la percezione di tutti gli altri, non appartiene all’insieme dei dati che l’utente può chiedere sul proprio conto; ma la scelta del tipo di dati che Facebook si rifiuta di consegnare è la base per ottenere l’informazione su questo potere. Il nodo essenziale della questione non si trova nella privacy, nel diritto privato, ma in quello pubblico. Facebook è una piattaforma politica, che la classe politica non ha ancora imparato a riconoscere.