Il sapere dei classiciSatira quidem tota nostra est (Quintiliano, Institutio Oratoria).

Mi piace l’idea di battezzare questo blog con un tema a me caro da sempre: la satira. Non, beninteso, la laida satira (ad esempio, politica) che a volte infesta le trasmissioni televisive. Mi rifer...

Mi piace l’idea di battezzare questo blog con un tema a me caro da sempre: la satira.
Non, beninteso, la laida satira (ad esempio, politica) che a volte infesta le trasmissioni televisive.
Mi riferisco, piuttosto, alla nozione di «satira» vera e propria.
Che leggiamo in Freud (ne Il motto di spirito) oppure abbiamo toccato con mano nei primi spettacoli di Moni Ovadia, quando con Oylem Goylem egli raccontava la potenza del motto nella cultura yiddish (il witz).

La satira è una dimensione del nostro inconscio.
Conoscerne le potenzialità consente, nel piccolo, di (ri)costituire il dialogo con il nostro antagonista e, su scala via via maggiore, evidentemente, di portare pace nel mondo.
Fare vera satira, infatti e in breve, significa sapere «smascherare» gli altrui vizi e difetti: identificarli, comprenderne la psicogenesi ed, in definitiva, accettarli.
Peraltro, apprendere l’arte di fare vera satira (e, quindi, evitare l’errore di prendere per altrui vizio ciò che vizio in realtà non è, ma semplicemente un diverso punto di vista) implica, per prima cosa, sapere fare satira autentica verso chi supponiamo di conoscere meglio di tutti, quando invece molto spesso non ne sappiamo un bel niente.
Sarebbe a dire: noi stessi.
Sapere «accettare» un vizio, alla fine, vuol dire fare una piccola rinuncia.

E, a volte, una rinuncia piccolissima può portare a risultati grandissimi, sui quali mai si sarebbe scommesso una volta scatenatosi il conflitto con il nostro antagonista.
Nell’ordine, fare satira è:
• identificare il vizio (nostro e/o altrui);
• accettarlo;
• fare reciproche piccole rinunce;
• costruire le basi per la pace;
• riderci sopra;
• andare avanti, insieme e più forti.
Questo significa satira: prendere a sberle noi stessi e, con il nostro antagonista, ridicolizzare i limiti del conflitto e sorridere avanti al sollievo dell’immensità della pace.

Mi accorgo quotidianamente di questa potenza, soprattutto quando, nella mia veste di avvocato, sono coinvolto in liti in cui a volte la posta in gioco parrebbe altissima.
E la reciproca rinunzia, invece e come un abbaglio, la ridimensiona.
E salva dal conflitto.
La satira va custodita gelosamente, visto che, come ci spiega Quintiliano nel passo che ho citato in apertura, è «tutta nostra», è cioè un fenomeno teatrale e filosofico squisitamente italiano, nato nell’antica Roma.
È, insomma, insieme al diritto, uno dei pochi tesori che non abbiamo saccheggiato ai Greci.
A ben vedere, andando ancora più indietro, incontriamo un esercizio di satira (e, alla fine, una sonora risata) in un episodio caposaldo dell’Antico Testamento: la nascita del figlio di Abramo, Isacco.

Dal quale, guarda caso, prenderà il via un’intera narrazione.
La racconta bene Moni Ovadia ricordando che «Abramo all’annuncio – portato dall’Arcangelo in travestimento di viandante – che egli, ormai centenario, avrà per congiungimento un figlio da sua moglie Sarah novantenne e da sempre sterile, scoppia a ridere.
Sarah, in modo più ritroso, ride anche lei.
L’Arcangelo la vede e le dice: “Cosa fai, ridi?”
Sarah nega e si schermisce, ma l’Arcangelo insiste: “No, no, ti ho vista. Tu hai riso!”».
Un invito, allora, a me e a tutti i lettori: ridiamo di noi stessi e non prendiamoci troppo sul serio.

Χαίρε,
Marco Sartori

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