Con la Götterdämmerung (Crepuscolo degli dei) è ora disponibile, anche in edicola, la registrazione in DVD dell’intero Ring di Wagner sotto la bacchetta di quello che è al momento forse il migliore direttore wagneriano in attività, Zubin Mehta. Di un ciclo così gigantesco è pressoché impossibile avere un’impressione, in termini di esecuzione, univoca. Il testo, congegnato secondo un’architettura di stupefacente solidità, sembra inizialmente sfuggire da tutte le parti, e solo dopo decine di ascolti si riesce ad averne un’idea salda; più precisamente, si capisce che quella impressione di sfaldamento obbedisce invece alla ineguagliata capacità wagneriana di intervenire a distanza su cellule motiviche, variandole senza sosta. Si è dunque costretti a segmentare le preferenze, perché esecuzioni che soddisfino ogni aspetto, particolarmente per l’ascoltatore d’oggi, divenuto più esigente, ma forse inevitabilmente più pigro, non esistono. Se dovessi suggerirne una, tuttora disponibile, a quanto mi risulta, sul mercato discografico, non avrei dubbî nell’indicare la registrazione dal vivo effettuata alla Scala tra il marzo e l’aprile del 1950, sotto la direzione di Wilhelm Furtwängler (Metromusica, 1989). La registrazione dal vivo implica brusio e rumori di fondo, senza contare naturalmente che l’incisione è mono e le disuguaglianze dinamiche si sentono. Ma non c’è pulizia del suono che tenga di fronte alla tensione spasmodica o, all’opposto, ai laghi contemplativi ottenuti da orchestra e cantanti da quell’insuperato direttore. Scelgo solo un luogo, il preludio della Valchiria, una pagina che in Furtwängler ha il ritmo angoscioso di una incombente catastrofe cosmica; nessuno, direi, raggiunge tali vertici. Ma sotto altri aspetti, naturalmente, quel pur magnifico esito non può soddisfare completamente; basti pensare all’assenza della componente scenica.
L’incisione di Karajan (formidabile in Strauss, e certo assai convincente in Wagner) è, per certi versi, quasi all’opposto di quella di Furtwängler. Gradazione sofisticatissima delle sonorità, dominio ferreo dei cantanti, sottratti al canto stentoreo che così spesso guasta la sottigliezza del disegno wagneriano, trattamento in alcuni casi quasi cameristico della pagina. Il tutto, bisogna anche dire, perfettamente calibrato dagli ingegneri del suono della Deutsche Grammophon (basta ascoltare il brunito luttuoso degli archi gravi nel congedo di Wotan da Brünnhilde alla conclusione della Valchiria). Un prodotto perfetto, ma che, almeno così mi sembra, non produce la scossa tellurica che lascia senza fiato l’ascoltatore di Furtwängler. In DVD la Deutsche Grammophon ha pubblicato anche la versione registrata a Bayreuth nel 1979-1980, diretta da Pierre Boulez con la regia di Patrice Chéreau. Risultato di cui è difficile dare adeguato conto. La direzione di Boulez, con estremismo provocatorio, spoglia il testo del suo ininterrotto melos, e ce lo restituisce secondo il divisionismo sonoro indotto dalle teorie strutturalistiche, largamente dominanti nell’Europa degli anni Settanta. In compenso la regia di Chéreau è di gran lunga, almeno per quanto possa giudicare, la migliore disponibile, non solo per l’intelligenza dell’insieme, ma per quanto riesce a ottenere dai cantanti, quasi tutti eccellenti, e spronati dal regista a seguire con rigore le più sottili inflessioni richieste dalla partitura, nel canto, nella dizione e nel portamento. Esempio sbalorditivo ne è il tenore Heinz Zednik, ambiguo e insinuante Loge nel Rheingold, istrionico e quasi marionettistico Mime nel Siegfried (nel ruolo del titolo Manfred Jung, tenore dotato di voce potente e salda, risulta, al suo confronto, imbarazzante; e va bene che la sua parte sia, anche sul piano scenico, tra le più impervie del Ring).
E la versione di Mehta? Dell’eccellenza del direttore s’è detto; e anche i cantanti sono, in buona parte, all’altezza della situazione. I punti deboli sono altri. Montale (la cui critica musicale non suscita in me sempre l’ammirazione professata da alcuni amici) ha lasciato scritto a più riprese che una regia che non si nota è, per definizione, una buona e anzi ottima regia. Anche fatta la tara a un’affermazione dal fondo paradossale, si sarebbe tentati, nel caso in questione, di dargli ragione. La Fura dels Baus, senza dubbio fornita di incandescente fantasia, non fa invece passare un secondo senza tentare di farci stupire. Loge che si presenta con una sorta di monopattino elettrico urbano, zoom vorticosi verso il centro della terra, grappoli umani che si agglutinano o si disperdono in sinuosità serpentine, un Mime, nel Siegfried, che fa il verso, non si sa quanto parodico, a Guerre stellari, e chi più ne ha più ne metta. Si direbbe che intenzionalmente si sia andati contro il precetto wagneriano della necessaria rinuncia all’egoismo delle singole arti. Sarà davvero questo il modo di leggere il Ring cogli occhi contemporanei? Nella versione di Boulez-Chéreau Alberich, sulla sponda del Reno, muove un cilindro con tutte le forze, prima di affermare la propria rinuncia all’amore; e Loge e Wotan scendono per le scale di un’officina ottocentesca verso l’inferno del Nibelheim. Due modi economicamente allusivi e magistralmente efficaci per mostrare come Wagner avesse pienamente compreso il legame tra sfruttamento della natura e sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Senza vincitori, con la sconfitta di tutti.
4 Novembre 2011