E’ quasi il riavvolgersi di un film già visto. Una replica malinconica di un antico scenario. Ovvero la Lega in Parlamento che si diverte una volta di più a fare il “Pierino istituzionale” nel clima di scandalo generalizzato, nello stracciarsi le vesti dei curatori del Palazzo. Non pare vero allo stuolo di parlamentari in verde riscoprire il piacere dell’ostruzionsimo, la creatività dell’uso dei regolamenti d’aula per lucrare sulla rendita di unica opposizione dichiarata e protagonista. La tattica dei 290 “ordini del giorno” (che ha costretto alle corde il compassato ministro per i Rapporti con il Parlamento, l’anziano e sperimentato prefessor Piero Giarda) è anche una liberazione dalla “camicia di forza” del sostegno annoso a un governo Berlusconi di cui la Lega era parte decisiva e che ha costretto a trangugiare politicamente più di quanto era umano sopportare.
Bella consolazione, si dirà, a certificare un fallimento politico che ha di fatto tradito tutte le promesse e le speranze diffuse nell’elettorato di opinione che affidava alla logica “ruspante e concreta” del Carroccio le possibilità di un cambiamento. Non ha mutato la vita della gente, non ha restituito la piena dignità di cittadini a quel variegato “blocco sociale” del Nord che le aveva affidato una piena delega di rappresentanza.
D’altronde l’affidavit era chiaro e inequivocabile. Procedere in tempi ravvicinati ad uno “smontaggio” dello Stato parassitario e inefficiente e a un “rimontaggio” di modernità equo e sostenibile, Non è riuscita per un concorso di circostanze politiche e culturali, dalle quali non sono esclusi i suoi limiti progettuali e la scarsa capacità di incidere nella mollezza vischiosa delle seduzioni romane e nella giungla delle alte burocrazie.
E tuttavia, se persino il governo tecnico sostenuto dall’universo mediatico e dei poteri consolidati e non eletti si arrende alle piccole lobbies di farmacie e tassisti, qualche elemento di comprensione è oggi onesto ammettere.
Come pure la Lega almeno un’attenuante ce l’ha: in fondo la rivoluzione istituzionale l’aveva fatta nel 2005, con la lunghissima procedura della rfiforma costituzionale che aveva portato a compimento, sconvolgendo l’architettura dello Stato. Lì ci stava la riduzione dei numero dei parlamentari, la pienezza del federalismo, il superamento di quell’obbrobrio allucinante del “bicameralismo perfetto”( per cui, unico Paese in Occidente, Camera e Senato sono costretti a rifare le stesse cose, con costi e ritardi spaventosi), un potere più definito e chiaro per l’esecutivo e via ammodernando…
Ma quel complesso riformatore era stato bocciato dal referendum costituzionale del giugno 2006, con la spinta immobilista e conservatrice di chi accusava lo sfregio della Costituzione e aveva suscitato la virtuosa indignazione dei cittadini, invitati a conservare l’apparato dello Stato così com’era e come ci costa adesso.
Il popolo sovrano ha, a maggioranza, sempre ragione, anche quando rifugge dal cambiamento e scivola verso le sofferenze dell’oggi. Ne giudicherà la Storia. Ma la Lega da allora sopravvive a se stessa e, nonostante il seguito di consenso cresciuto negli anni, non ha saputo offrire un’alternativa non solo credibile, ma anche efficace.
E la sua dolorosa sconfitta politica lascia inevasi (e semmai marciti) i problemi dello Stato “patrigno” e ingordo che, aumentando il prelievo, inibisce la crescita. Di solito, nella Storia, gli autobus del cambiamento passano una volta sola: ma oggi,con la Lega con le gomme a terra per i suoi errori, non si vede nessuna realtà politica che transita alla fermata del futuro.
.