Un altro anno è passato e forse tra un anno lo ricorderemo come migliore di quello che è appena iniziato.
E’ tempo di prepararci e guardare attorno su dove e come cercare nuove opportunità. Si legge che nel 2012 ci sono 300 mila posti di lavoro in bilico, quasi tutti impiegati in aziende che non hanno voluto o non sono riusciti a trovare sbocchi e mercati all’estero. E’ la grande colpa dei manager e imprenditori che non sono riusciti a guardare “oltre la siepe” ed ora chi ne fa le spese sono gli operai e gli impiegati che resteranno molto probabilmente a casa.
Quella che si sta profilando nel XXI secolo è una crescita sempre più differenziata dell’economia mondiale, dove paesi maturi come USA, Europa e Giappone crescono e cresceranno sempre di meno, caratterizzati da una grande volatilità finanziaria, un alto debito pubblico, e quindi con poche nuove risorse disponibili per alimentare la crescita.
La differenza tra economie emergenti ad alta crescita e quelle più avanzate è rappresentata da un forte divario da ricoprire da parte delle prime, specie in certi ambiti tecnologici, quindi con un alto potenziale di crescita, mentre le seconde, per crescere, dovranno spostare verso l’alto la frontiera della produzione, quindi verso l’innovazione tecnologica e attraverso il riequilibrio tra produzione industriale e servizi.
Anche in questo scenario, il quadro non è omogeneo, la Germania, la Svezia, l’Austria , la Finlandia, e in parte la Francia, a seguito di profonde riforme strutturali, attuate anche in tempi precedenti la crisi, hanno rilanciato la crescita, riportandosi su PIL precedenti la crisi stessa e riuscendo a recuperare in termini di disoccupazione e competitività nel corso dell’intero 2011. Grande influenza, in questo fenomeno, gioca il proprio ruolo e la presenza in paesi come la Cina, cosa che non possiamo dire per L’Italia, la Spagna e i paesi che si sono avvicinati solo di recente all’Asia.
Il mondo è quindi spaccato in due: una parte che cresce a ritmi sostenuti, con milioni di persone che stanno accedendo a livelli di redditi sempre più elevati e che cambiano ed evolvono nei loro consumi, e che spinge la domanda sempre più forte sulle materie prime, mentre l’altra parte è afflitta da stagnazione e una crescita ormai piatta se non negativa. Tutto questo spinge a pressioni inflazionistiche che hanno influenza non solo nei paesi a forte crescita, ma anche sui paesi avanzati. I consumi nei paesi asiatici sono sempre più endogeni, e qui si inserisce la nostra discussione di oggi.
Per parlare di opportunità offerte dal mercato cinese si deve andare a leggere tra le righe del XII piano quinquennale, che segna il passaggio da una economia in crescita basata sulle esportazioni ad un sistema incentrato sui consumi interni, quindi, come si diceva, una crescita interna.
Chi grida (e spera) nella crisi del sistema cinese non conosce la capacità di reazione ai cambiamenti e alle difficoltà, più volte dimostrata nel passato.
La popolazione in Cina è 5 volte maggiore di quella degli stati uniti, ma con un reddito procapite solo di 1/6.
Un paese che presenta ancora forti contraddizioni ma con un “piano paese” che ha dimostrato di funzionare negli ultimi 30 anni. Il paese è quindi “condannato” a crescere per poter mantenere il proprio programma di sviluppo per la propria popolazione e le opportunità che si creano sono quindi innumerevoli.
I pericoli in Cina sono principalmente rischi legati allo sbilanciamento della distribuzione della ricchezza e da qui che nasce la spinta del governo a dirigere l’attenzione verso l’ovest del paese, creando politiche di incentivi per attrarre investimenti nell’area.
I settori dove l’Italia può ora eccellere sono diversi da quelli che si profilavano 10 o 20 anni fa e fra 5-10 anni saranno ancora diversi.
Ricordo che negli anni ‘90 si compravano impianti chimici in occidente (motivo per cui mi sono poi trovato in Cina) si vendevano laminatoi, macchine per produrre scarpe, per la filatura etc., in pratica l’industria primaria
Ora le esigenze si sono evolute: si parla di infrastrutture avanzate, di industria legata all’aerospazio, alle telecomunicazioni e sistemi di trasmissione dati, di meccanica di precisione e di robotica. Il terziario si sta espandendo sempre di più, ogni giorno un mega mall con centiania di negozi viene aperto in Cina, quindi esiste una forte espansione nel settore del commercio ma anche dei servizi sanitari e di prevenzione.
Sarà sempre più necessario strutturare la logistica e curare la formazione di eserciti di giovani alla ricerca di nuove professioni e specializzazioni (shop managers per esempio, controllori di volo, designers, medici, insegnanti, etc.), in settori dove la Cina presenta carenza cronica.
Lo sviluppo del mercato interno è diventato quindi il driver decisivo per spingere e convincere l’imprenditore italiano a guardare verso la Cina, un’opportunità da sviluppare per l’espansione commerciale della propria azienda, possibilmente accompagnata e sostenuta da presenza produttiva, come il mercato richiede, pena è l’esclusione dal sistema nel breve-medio termine.
Da qui nasce l’esigenza di definire le strategie da adottare, ancor prima del rischio, cercando di massimizzare il grado di controllo dell’impresa da creare in Asia, sostenuto da una sana pianificazione finanziaria per valutare l’impegno economico nel breve e medio tempo oltre che la giusta valutazione delle risorse umane da mettere in campo.
Esiste quindi un vuoto in Asia che raccoglie solo il 9.8% degli investimenti italiani all’estero, e molto meno dell’1% degli investimenti stranieri in Cina sono Italiani.
Che fare?
Dalla mia esperienza diretta, le aziende che hanno avviato imprese e produzioni all’estero hanno trovato mercati e opportunità che hanno fatto sopravvivere anche le imprese a casa nostra. Il falso mito che chi porta le produzioni all’estero porta via il lavoro all’Italia è una mistificazione spesso di politici poco sinceri, cavalcando facili paure per il proprio interesse, ma anche di un giornalismo facilone e rozzo che da anni scrive sui giornali e libri vari creando più danni alla nostra economia e dando una facile giustificazione agli imprenditori che non hanno saputo internazionalizzarsi, ed con questo non intendo “delocalizzare” ma ampliare le produzioni e le attività commerciali per cogliere mercati emergenti che altrimenti vanno ai nostri concorrenti oltralpe.
Quello che suggeriamo alle aziende italiane è di iniziare a mettere in conto la valutazione di una presenza diretta in Cina sempre più consapevole che la sopravvivenza della nostra industria non può prescindere dalla presenza diretta nei mercati di riferimento, ma anche in paesi che offrono espansioni e mercati sempre più esigenti, come la Turchia, l’Egitto, il Vietnam, l’Arabia Saudita, il Brasile, il Messico, il Sud Africa e così via, laddove è diventato sempre più possibile operare con profitto e ritorni importanti per la nostra economia.