Marta che guardaAcab (All Cops Are Bastards), di Stefano Sollima

Non era semplice fare un film sui celerini, sugli agenti che vengono mandati a fare il servizio d’ordine negli stadi, nelle manifestazioni, in quelle situazioni dove come niente scoppiano casini, m...

Non era semplice fare un film sui celerini, sugli agenti che vengono mandati a fare il servizio d’ordine negli stadi, nelle manifestazioni, in quelle situazioni dove come niente scoppiano casini, magari perché si sgombera un campo nomadi o un palazzo occupato.
Non era facile perché la Celere è vista diffusamente con fastidio, o con odio, perché erano celerini quelli che hanno fatto un macello alla scuola Diaz di Genova, perché sono celerini quelli che usano i manganelli, spesso contro gente disarmata, disoccupati che protestano, ragazzi ai concerti, immigrati disperati.
In Acab (dal motto skin “All Cops Are Bastards”) Sollima ti porta dentro la vita di tre di loro, e lo fa senza cedere a un facile giudizio. Non li condanna per partito preso, né di certo li assolve.
Mostra però, bello evidente, il centro malato della questione: che sta nel porre degli uomini, che sono per convinzione o per dovere in uno stato di costante esaltazione, a difendere un ordine e una legge che poi loro stessi tradiscono spesso e volentieri in nome di un presunto e malato spirito di corpo, di una disperata fratellanza.
Cobra (Pierfrancesco Favino), Negro (Filippo Nigro) e Mazinga (Marco Giallini) sono tre personaggi contorti e complessi.
Sono tre “celerini bastardi” mossi da una totale dedizione verso la loro missione, al punto però di diventare omertosi quando c’è da coprire chi di loro ha esagerato (e se un celerino esagera c’è qualcuno, dall’altra parte, che finisce all’ospedale, se non all’obitorio).
Al punto da infrangere loro stessi la legge dello Stato se c’è da vendicare un torto subito, perché lo Stato lo servono, ma non aspettano che agisca con i tempi della Giustizia.
Sono tre sbirri tutti d’un pezzo, che cantano “celerino figlio di puttana” per farsi di adrenalina prima di entrare in azione.
Sono tre duri che parlano e vivono da machi (ma esistono sul serio dialoghi così?!?!) e che sembrano esagerare un po’ a caso, senza una chiara e solida ideologia. Una volta sbaglia uno e lo ferma l’altro, la volta dopo succede il viceversa.
Ma questa incoerenza non è un difetto drammaturgico: è uno dei meriti più netti del film, prova della sua onestà.
Perché sarebbe stato più facile semplificare dipingendoli o tutti cattivi, o tutti eroi, o tutti vittime di un lavoro infame. Invece sono dei guerrieri poveracci, attaccati a una missione alta, che tradiscono troppo spesso. Diventano complici del male e carnefici di chi dovrebbero proteggere. E lo sanno. Non se lo dicono, ma lo sanno.
Merito del regista, ma anche degli attori, tutti bravi, e più di tutti Pierfrancesco Favino, che riesce a rendere truce e insieme amara quella faccia da buono che si ritrova.
È un bel film, Acab, insomma. E lo è anche perché pur mettendo al centro del discorso un’atmosfera che si nutre di una violenza sempre pulsante, non travolge mai lo spettatore con questa violenza. I pestaggi, le manganellate ci sono, ma sono quelle necessarie e spesso sono solo suggerite, perché non c’è bisogno di far vedere il cervello che schizza su un muro per spiegare che a qualcuno hanno spaccato il cranio. Non ho mai dovuto chiudere gli occhi, per dire. E con questa misura, con questa delicatezza, la denuncia arriva più profonda. Prende la testa e non solo lo stomaco. E il Cobra di Favino non te lo dimentichi più.

X