Parlare dell’Iran, della sua politica e del suo popolo è difficile per molti motivi. Da un lato le notizie che leggiamo somigliano più a propaganda di guerra che a informazione, e questo è vero sia per quanto concerne i media iraniani che quelli occidentali. Dall’altro è difficile (anzi, pericoloso) raccontare i fatti: giornalisti e blogger vengono quotidianamente minacciati, arrestati, cacciati… talvolta uccisi. L’incubo comune tra giornalisti, blogger e attivisti è essere costretti ad occuparsi di Iran solo dall’estero. Non raramente l’incubo diventa realtà. Per questo motivo dedico il primo post a tutti i giornalisti e i blogger incarcerati o in esilio, pubblicando la lettera che il giornalista Bahman Ahmad Mouei ha mandato alla moglie poche settimane fa.
Bahman, che era già stato arrestato in occasione delle proteste del 2009, è stato riarrestato per aver scritto un articolo in cui criticava le politiche economiche del governo. Ora si trova a descrivere la vita nella prigione di Evin, nel ramo dei prigionieri politici.
“Cara,
durante queste lunghe ore, dietro questi alti muri, penso sempre a te. Ti scrivo mentre sto seduto nel cortile della prigione su una sedia di legno scricchiolante. E’ rotta. Ha piovuto continuamente per tutta la settimana e persino le nostre ossa sono diventate umide. Fino ad oggi siamo rimasti chiusi nelle nostre celle, aspettando che il tempo migliorasse. Nella mia cella siamo in diciotto. Siamo così stretti che non possiamo nemmeno bere il the senza disturbare il vicino. Ma non importa, tanto questa settimana non c’era nemmeno l’acqua calda, tant’è che nessuno di noi si è lavato per giorni. Certe mattine abbiamo la fortuna di vedere il sole, però purtroppo non vediamo la luna da tanto, tanto tempo e un po’ mi manca… E’ solo grazie a te che posso sapere quello che sta succedendo lì fuori. Ma voglio che tu sappia che, nonostante tutto questo, sono orgoglioso di essere qui, al fianco dei migliori figli della nostra patria. Mi sento pieno di orgoglio, l’orgoglio che viene dall’essere un prigionero politico. Siamo in molti.
Ieri mattina girava voce che ci fosse acqua tiepida alle docce, così siamo tutti corsì là e ci siamo messi in fila. Sembrava come se tutta la società iraniana fosse in coda a quella doccia, perché c’erano tutte le fazioni politiche: l’ex capo di Distretto e Deputato Mohsan Mirdhamadi stava lì in piedi tenendo in mano la saponetta, affiancato da un gruppo di giovani di sinistra, dietro a loro Juad Lari Ahad del movimento del Mojhaedin aveva in mano i piatti (era il suo turno di lavarli), mentre Pichalach Arav Surahi stava sotto la doccia. Ali-Reza Rajaa’i, un attivista religioso nazionalista, stava proprio dietro di me. Cara Jila, è incredibile. Dopo 30 anni di guerre e rivoluzioni, dopo 30 anni di divisioni e guerre tra fazioni, siamo tutti qui insieme. Tutti in prigione, fianco a fianco, tutti i giorni, sempre a discutere.
Alcuni giorni fa hanno portato fuori dalla cella Amin Nia’ai-Pour per frustarlo. Era la punizione comminatagli dal tribunale. Ha appena 22 anni e pesa a malapena 45 chili, prima studiava all’Università di Tehran, e ora è qui con queste ferite che si trova sulle schiena, tutte blu e nere, e non sappiamo come alleviare il suo dolore. Alcuni prigionieri vengono a fargli visita da altre celle, per consolarlo, e riusciamo a farlo stare un po’ calmo.
Pochi giorni fa sono arrivati due nuovi prigionieri. Uno di loro era un vecchio di 75 anni, che di mestiere guidava un pickup. Ci ha raccontato che era tranquillamente seduto sul divano di casa davanti alla televisione quando ha saputo dal telegiornale che ci sarebbe stata una riduzione dell’inflazione e della disoccupazione. Visto che non ne poteva più di queste bugie, è uscito di casa a dipingere slogan sui muri. Quella sera sono andati a prenderlo a casa, il vecchio è arrivato qui che vestiva ancora il pigiama. Il secondo di loro era un giovane lecturer dell’Università di Esfahan. Una delle sue lezioni era stata registrata ed è stato accusato di fare propaganda contro il regime. Che tristezza vederli qui con noi.”