l modo in cui si sta sviluppando la vicenda “liberalizzazioni” è uno dei tanti esempi di come lo Stato sia incapace di guardarsi allo specchio e cerchi nel Paese le soluzioni che non vuole applicare a se stesso. Chi è a rischio di fallimento è lo Stato, non il Paese, anche se chiaramente il fallimento dello Stato se lo porterebbe dietro. Il Paese non aiuta, perché la sua economia non cresce o cresce troppo poco, ma uno dei principali motivi per cui non riesce a crescere è proprio perché il costo dello Stato che grava su di essa è molto elevato, a fronte di servizi e infrastrutture non adeguate rispetto all’entità del sacrificio patrimoniale imposto.
A fronte di tutto questo, sarebbe lecito aspettarsi che la ristrutturazione parta, appunto, dallo Stato: dal numero dei rappresentanti politici ad ogni livello; dal numero dei livelli di rappresentanza; dai tetti massimi agli stipendi dei dirigenti dei Ministeri, delle Pubbliche Amministrazioni, degli enti locali, delle varie authority e delle società partecipate; dai doppi incarichi dei cosiddetti “magistrati fuori ruolo”.
E poi misure draconiane contro la corruzione e gli sprechi, per mettere a corrotti e dissipatori quella stessa “sana paura” che pochi giorni fa, in un’intervista telefonica rilasciata a Belpietro, il direttore dell’Agenzia delle Entrate riteneva opportuno venisse finalmente instillata negli evasori fiscali. Tutto questo consentirebbe di agire in modo diretto lì dove i problemi si annidano, ossia nei conti pubblici dello Stato. Inoltre, creerebbe i presupposti per avviare politiche di riduzione del carico fiscale sulle imprese, privilegiando quelle labour intensive.
Numeri alla mano, “bastano” 30-35 miliardi per azzerare l’IRAP del settore privato e dimezzare l’aliquota IRES delle società di capitali, il cui fatturato risulta per oltre il 50% assorbito da remunerazioni erogate per lavoratori dipendenti e collaboratori. Possono essere tanti, ma possono essere anche pochi, se una parte può essere coperta dalla riduzione del costo dello Stato, oltre che dal taglio di una serie di incentivi e agevolazioni che insiste già oggi, in maniera invero assai meno accattivante, sul comparto delle imprese.
Le liberalizzazioni sono un moltiplicatore di crescita, da sole non bastano
È in contesti come questo che le liberalizzazioni potrebbero davvero esplicare i propri positivi effetti, non certo in un contesto recessivo in cui, pur di evitare allo Stato di dimagrire come dovrebbe, si eleva la pressione fiscale dal 42,5% al 45,1% da un anno per l’altro. Le liberalizzazioni, infatti, non sono un fattore di crescita, ma un moltiplicatore di crescita. Se si creano i presupposti per la crescita dell’economia, le liberalizzazioni amplificano gli effetti positivi. Se però le liberalizzazioni si innestano in un contesto recessivo o di crescita prossimo allo zero, poco importa se si tratta di liberalizzazioni a forza dieci o cento, perché dieci o cento per zero dà comunque zero.
Noi, saltando a piè pari la ristrutturazione dello Stato, come se il problema non partisse da lì, stiamo dichiarando di voler fare esattamente questo e, a ogni controdeduzione, rilanciamo che allora lo moltiplicheremo per mille e poi diecimila e così via. Per tutti, vale l’esempio delle tariffe professionali: prima se ne dispone la derogabilità, poi se ne vagheggia addirittura l’abrogazione anche come mero parametro di riferimento comunque derogabile. Non è che il Governo dei professori abbia qualche lacuna proprio sulla tabellina dello zero?