Il sipario strappato“Sul concetto di volto nel figlio di Dio”. Considerazioni a freddo

Ora che si sono recitati tutti i rosari e tutte le messe riparatorie, che sono risultate vane tutte le interpellanze parlamentari e che si sono conclusi per sfinimento tutti i dibattiti, il clamore...

Ora che si sono recitati tutti i rosari e tutte le messe riparatorie, che sono risultate vane tutte le interpellanze parlamentari e che si sono conclusi per sfinimento tutti i dibattiti, il clamore suscitato da Sul concetto di volto nel figlio di Dio potrebbe sembrarci non soltanto eccessivo, ma persino buffo. La storia di uno spettacolo che, senza neppure essere visto, viene giudicato blasfemo da un manipolo di cosiddetti miliziani di Cristo e diventa oggetto di boicottaggio, di richieste di censura da parte del Vaticano e di numerosi politici, potrebbe apparirci la solita, grottesca vicenda da tragicommedia all’italiana, con quel tanto di demenziale, di macchiettistico e di tristemente effimero che non può essere attenuato neppure da un lieto fine da manuale, del tipo: svariate persone di rilievo istituzionale e i più noti intellettuali milanesi, presenti in massa al debutto al Teatro Parenti e al successivo teatroforum, decretano il trionfo e assolvono da ogni accusa. Eppure qualche sussulto, qualche residuo di turbamento, tutta questa faccenda dovrebbe ancora procurarcelo, soprattutto se si prendono in considerazione due questioni apparentemente di contorno, ma che a mio avviso possiedono una loro centralità.

La prima riguarda l’atteggiamento della chiesa cattolica, e di quella ambrosiana in particolare, nei confronti della cultura. Chissà se in Vaticano si sono accorti di essersi fatti del male tenendo un atteggiamento da severi censori di uno spettacolo del quale avevano a malapena sentito dire. Sicuramente alla curia milanese non è sfuggito il danno procurato dall’atteggiamento “pilatesco” (così l’ha definito il regista Castellucci) del cardinale Scola. Nessuna aperta disapprovazione, certo, ma molti mugugni di preti e fedeli di spicco che, dopo l’uscita sul Corriere di un’intervista in cui don Rigoldi stigmatizzava “il baccano esagerato” e la “disinformazione” delle autorità ecclesiastiche, non hanno mancato di fare la loro telefonata di solidarietà al cappellano del Beccaria, e di farlo sapere in giro. A pensarci bene l’uscita di Scola, implicitamente solidale con le ragioni della protesta ultracattolica, ha rappresentato il primo atto ufficiale di discontinuità con la linea martiniana-temmanziana di apertura e dialogo costante con le forze laiche della città. In questa decisione l’arcivescovo di Milano si è trovato sprovvisto persino del sostegno che finora era sempre stato sottinteso: quello di Comunione e Liberazione, l’area ecclesiale da cui proviene. Due importanti giornalisti di formazione ciellina, Giuseppe Frangi e Antonio Socci, hanno difeso sentitamente lo spettacolo cogliendone la natura in fondo apologetica. Forse però le dichiarazioni di Scola vanno lette in una prospettiva che non è ambrosiana, ma romana. La lettera censoria di monsignor Wells, assessore alla Segreteria di Stato vaticana, è datata ufficialmente 16 gennaio, ma è stata di certo elaborata nei giorni precedenti: difficile che Scola non sia stato informato preventivamente dei suoi contenuti. Di fronte a una presa di posizione così netta della Segreteria di Stato, il cardinale avrebbe potuto esprimere una posizione diversa? Probabilmente no, ma perlomeno avrebbe potuto denunciare la piega squallida e pericolosa che avevano preso le contestazioni, come era stato fatto dalla conferenza episcopale francese in occasione delle proteste parigine. Molte delle mail deliranti che sono giunte al Teatro Parenti erano inviate in copia anche alla curia: davvero la chiesa di Milano non aveva nulla da replicare? E la linea aperturista nei confronti della cultura laica che avevano tenuto sin qui i vescovi di Milano continuerà a essere tale o dovremo aspettarci, magari su suggerimento romano, una svolta? Per continuare con le domande: possiamo dimenticare che all’apice della Segreteria di Stato vaticana c’è il cardinale Bertone, cioè un prelato che negli ultimi anni ha cercato di estendere massicciamente il suo potere in terra ambrosiana? Tutti sappiamo che c’è la sua mano dietro alle macchinazioni sul consiglio d’amministrazione dell’Istituto Toniolo, da cui dipendono i vertici dell’Università Cattolica, e che da un rivolo di quella fosca guerra di potere è sgorgato il caso-Boffo. Sappiamo inoltre che la cordata filovaticana per l’acquisto del San Raffaele ha avuto in lui il suo regista. Sappiamo infine che la sua visione in fatto di laicità della cultura e delle istituzioni non è delle più avanzate, per usare un eufemismo, ma che allo stesso tempo il suo rapporto con i media è decisamente postmoderno, cioè all’insegna della spregiudicatezza e della sovraesposizione costi quel che costi, come anche questa vicenda insegna. Sarà lui, che in passato il cardinale Tettamanzi aveva costantemente rintuzzato, a dettare in futuro la linea alla chiesa ambrosiana nei rapporti con la cultura?

La seconda questione è invece di natura squisitamente teatrale. Possibile che ciò che avviene sul palcoscenico ottenga l’attenzione dei media, e di conseguenza anche quello della massa, solo quando c’è di mezzo lo scandalo? Questa domanda potrebbe essere formulata anche per l’arte contemporanea, cioè per l’altro ambito culturale che in Italia può contare su di un pubblico elitario. Tra gli artisti contemporanei ha fatto scuola il caso-Cattelan, cioè la storia di un pubblicitario di cattivo gusto che fa coincidere il valore di un’opera d’arte con la quantità di scalpore che è in grado di suscitare. So bene che gli spettacoli della Societas Raffaello Sanzio non sono minimamente paragonabili a quelli dell’autore della Nona Ora e di altre amenità, ma non vorrei che la tentazione di imitarlo venisse a qualche bravo regista o drammaturgo sedotto dal circo mediatico. Per intenderci, se sull’onestà intellettuale di Castellucci non ho dubbi, su quella di un altro contestato eccellente del mondo del palcoscenico, Rodrigo Garcia, sono molto più cauto. C’è bisogno di aggiungere che qualsiasi cedimento alla logica dello scandalo e della bolla mediatica rappresenterebbe una forma di suicidio comunicativo per il teatro?

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