La data del 20 gennaio segna sul calendario un evento memorabile: la nascita di Federico Fellini. La notizia, in un attimo, ha fatto il giro del web. Lo stesso Google le ha reso omaggio dedicando al genio visionario del grande italiano un doodle d’eccezione, visibile per tutta la giornata.
La scelta ha incontrato il coro entusiasta dei tanti sostenitori e, come da copione, le raffiche rumorose dei contestatori, spesso, devo dire, piuttosto gratuite. Del resto, in rete si fa subito a passare dalle stelle alle stalle: c’è chi alla mattina ti elogia e alla sera è pronto a condannarti senza sconti. Qualsiasi pretesto è buono per far divampare la polemica. Noi, sapendo che la notte avrebbe portato consiglio, abbiamo preferito attendere e intervenire solo quando il chiasso dei festeggiamenti e il brusio dei battibecchi si fossero dileguati e il maestro fosse tornato a riposare finalmente in pace.
Tuttavia il fenomeno della devozione felliniana di massa ci riguarda da vicino. Chi del resto non si riconosce come un suo seguace o anche, semplicemente, come un suo ammiratore? Quindi, immaginando che i giorni della memoria tornino presto ad appassionarci e forse a consolarci dalla dura realtà dell’oggi, vogliamo rivolgere un ultimo pensiero al grande regista parlando di una sua virtù assai trascurata: il rispetto e la stima del lavoro altrui.
Fellini non era, come si potrebbe pensare, un artista ombelicale, autarchico, concentrato solo su stesso, ma sapeva discernere il valore della creatività altrui e la necessità di avere un confronto continuo con essa, soprattutto quando i suoi cosiddetti collaboratori non erano dei meri assistenti ma dei veri autori. Non gli tarpava mai le ali, non li faceva sopravvivere nell’ombra come degli allievi, anzi li osservava con cura e attenzione, traendone consigli e idee, raccogliendone le sfide o le provocazioni, secondo la logica dello scambio reciproco. E proprio su questa concezione del lavoro come dialogo si svolse uno dei periodi più fertili della sua carriera artistica, quello trascorso insieme a Franco Pinna.
Dopo la grande stagione delle spedizioni etnografiche per Pinna si profila all’orizzonte un nuovo viaggio. Un’ennesima avventura extraterritoriale ma stavolta nel mondo meraviglioso del cinema, fra ritratti di scena, cronache d’informazione e quello che in gergo allora si chiamava lo special, il lavoro fotografico appositamente dedicato al set delle riprese. Non si tratta mai di un racconto o di un resoconto statico, ingessato, antiquato, ma al contrario di una sequenza agile e vibrante proprio come i movimenti della macchina da presa, senza però piegarsi alla facile imitazione o al furto ozioso delle trovate registiche. Gli special di Pinna sono opere a sé e in più trattengono le traccie di un’ “altra” scena, destinata a non raggiungere il pubblico godimento. Invece molto spesso è per merito di questi scatti che nell’immaginario popolare i film diventano miti .
L’incontro ufficiale fra Fellini e Pinna avviene durante la lavorazione di Giulietta degli spiriti, se si esclude qualche breve intervento in Le Notti di Cabiria. È l’atto di nascita di un sodalizio duraturo e l’avvio di una nuova fase per entrambi. Il tempo del “bianco e nero” e delle “paparazzate” firmate Tazio Secchiaroli, da cui è sorto un film-rotocalco come La Dolce Vita, si è ormai compiuto. Fellini sta per iniziare un percorso denso di reminiscenze letterarie e di meditazioni sull’infanzia in cui l’illusione procede di pari passo con il ripensamento. Lo sguardo e il metodo di Pinna appaiono per lui decisivi e, in un certo senso, inevitabili.
I due artisti a confronto si scoprono quasi speculari, quasi coincidenti. Hanno entrambi origini contadine e al tempo stesso marinare; sono figli della terra, imbevuti di cultura arcaica e di rituali magici e tuttavia desiderano il mare perché lo immaginano una porta aperta su straordinarie avventure della fantasia.
In quel retroterra agreste-popolaresco matura la passione di Fellini per il circo, per i suoi clown, i suoi trucchi stupefacenti e le sue ingenue fantasmagorie e, di certo, tale “circofilia” è un’esca assai invitante per il sardo, anzi è un ottimo movente di future complicità. L’illustre riminese nel tempo continuerà ad avvertire nella personalità discreta del compagno di viaggio certe “segrete consonanze” che, andando ben oltre il riconoscimento dell’esecuzione perfetta di un compito ordinario, troveranno una puntuale conferma nell’interpretazione “pinniana” dello special. Proprio in quel momento la simbiosi sarà totale e il fotografo assumerà un ruolo essenziale diventando così un interlocutore autonomo. L’esperienza insostituibile degli anni passati, vissuta prima accanto a Ernesto De Martino poi a Franco Cagnetta, conduce Pinna a rielaborare lo spazio scenico come un luogo da esplorare con la lente meticolosa dell’antropologo: un habitat per una comunità di maschere e di fantasmi artificiali, un universo di finzione ma poggiante su salde e concrete radici primitive. La fotografia, con la sua forza meccanica certificatrice, aumenterà il gradiente esistenziale delle visioni e aggiungerà alla magia dello spettacolo un indelebile carisma di realtà. Inoltre sarà capace di esaltare, tramite l’espressività del colore, le tinte corporali, i valori carnali, i tratti meravigliosamente umani di quel mondo. Pinna, in altre parole, rimette in scena Fellini. L’inizio di una seconda vita per le splendide illusioni del maestro cui ancora oggi si può assistere sfogliando i tanti libri fotografici che ne seguirono, come, ad esempio, lo splendido I Clowns. Lo zoo di Fellini, il suo bestiario e il suo ominario, entrano nella macchina fotografica dell’immaginazione quasi in sordina, senza subire paralisi o alterazioni incongruenti, nel massimo rispetto della loro originalità. Aumenta solo la loro evidenza, la loro potenza estetica.
Da uno splendido ricordo di Renzo Renzi, mi piace riproporvi queste brevi parole di Fellini sul personaggio dell’amico: «Franco Pinna? Una calma da cow-boy in un film di Sergio Leone. Un quarto d’ora per guardare l’avversario, un quarto d’ora per tirare fuori la pistola. […] Lui stava tra lo scienziato e il sacerdote. Una lentezza da ierofante.[…] Non aveva nulla del fotografo, o per lo meno della nevrastenia del ladruncolo: prendere, afferrare, portar via. A volte gli chiedevo spazientito: “L’hai fatta?” Rispondeva con silenziosi sorrisi.»