Deborah Rohan, Il giardino degli ulivi, Cairo, 2011
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Le Nazioni Unite stimarono che 711.000 palestinesi, metà della popolazione araba della Palestina dell’epoca, fuggirono, emigrarono o furono allontanati con la forza durante il conflitto arabo-israeliano del 1948 e nelle violenze dei mesi precedenti … e si videro rifiutare ogni loro diritto al ritorno nelle proprie terre, sia durante sia al termine del conflitto.
E’ ciò che accade ai coniugi Moghrabi, Kemal e Haniya, facoltosi proprietari terrieri palestinesi, e ai loro nove figli. Costretti a fuggire dalla Galilea in Libano, perdono tutti i propri averi, e successivamente si disperdono lontano gli uni dagli altri, come dalla loro terra d’origine.
Anni dopo, nel 1993, Deborah Rohan, scrittrice americana di origini cattolico-irlandesi, si imbatte in uno dei figli di Kemal, Hamzi Moghrabi, stabilitosi negli Stati Uniti. L’incontro conduce la Rohan a ricostruire la storia travagliata dei Moghrabi. Dopo un’estesa ricerca storica, la scrittrice si reca in Libano, Giordania, Israele, Gaza per intervistare la madre di Hamzi e i figli. Nasce così Il giardino degli ulivi, un romanzo che, attraverso la saga familiare dei Moghrabi, ripercorre le tappe miliari della storia palestinese, dall’ultimo scorcio della dominazione ottomana nel 1913 al dispiegarsi del conflitto arabo-israeliano nel 1948.
Anche se sono ancora pochi, gli scrittori palestinesi non mancano, basti pensare a Sahar Khalifa e Suad Amiry, donne che hanno messo in luce la tragedia palestinese contemporanea, con particolare riferimento alla condizione femminile. Tradotti in molte lingue , si tratta comunque di autori con un pubblico piuttosto ristretto .
Il romanzo della Rohan è scritto senza voli stilistici, con un linguaggio e una struttura chiari ed espedienti narrativi – quali la storia d’amore fra Kamel e Haniya – non particolarmente originali. Ma questo libro non va letto per i suoi meriti stilistici e narrativi. Il suo pregio maggiore è di proporre un argomento scomodo in maniera estremamente divulgativa nel tentativo di sensibilizzare un’opinione pubblica più vasta, specie quella americana, che finora ha avuto poche occasioni di sentire “l’altra campana” o è stata refrattaria a farlo. E, cosa altrettanto importante, Rohan si muove in maniera pacata, senza retorica e senza prendere una posizione pregiudizialmente anti-ebraica.
Nonostante l’ evidente ricerca di un equilibrio, dal racconto di Rohan emerge tutta la sofferenza di un popolo che le ambiguità e gli interessi della diplomazia internazionale hanno ripetutamente illuso. E ancora oggi, dopo tanto sangue versato inutilmente da entrambe le parti, la creazione di uno stato indipendente di Palestina non è altro che un miraggio.