Sfogliando i vecchi quotidiani che si erano accumulati sulla scrivania mi sono accorto che, durante la prima metà del mese di gennaio, Repubblica ha dedicato una serie di articoli alla figura del critico letterario. Sullo sfondo le solite e inesorabili domande: qual è oggi la sua funzione? In base a quali criteri agisce? Esistono ancora metodi strutturati e credibili di lettura di un’opera? Mi chiedo se un dibattito del genere sarebbe anche solo ipotizzabile in relazione alla figura del critico teatrale. Sì, certo, Andrea Purcheddu le ha dedicato Questo fantasma, un bel libro edito da Titivillus l’anno scorso: ma, appunto, non ne è nato alcun dibattito, ed è un peccato. Perché sulle macerie della critica teatrale si è costruito il potere di alcuni giornalisti accomunati dall’essere dei mancati: dei drammaturghi mancati, dei registi mancati, talvolta persino degli attori mancati (e diciamo pure, per quanto riguarda il passato, degli editori mancati, o non pienamente realizzati, o attivi solo grazie all’indotto determinato dall’attività giornalistica, alla faccia del conflitto d’interesse che tanto riguarda sempre e solo gli altri). E’ un peccato che questo dibattito non si sviluppi tra gli addetti ai lavori del mondo del palcoscenico, registi, attori, ecc.; o anche solo tra i vicini di poltrona agli spettacoli: scusa, ma tu in base a che cosa emetti un giudizio su un’opera? Negli ultimi due mesi mi sono trovato a fare spesso questa domanda quando mi sono confrontato (o almeno ho cercato di farlo) con i miei vicini di poltrona su di uno spettacolo che ha convinto quasi solo me. Romeo e Giulietta, andato in scena al Litta tra dicembre e gennaio con la regia di Claudio Autelli, a me è sembrato un lavoro di tutto rispetto. Anzi, per essere più precisi ed entrare subito nella questione, mi è sembrata l’opera di un autore, che è poi la parola che orienta il mio giudizio critico. Chi o che cosa sia un autore è una faccenda annosa e per dirimerla non basta ovviamente un post. Se potessi cavarmela con degli slogan, inevitabilmente generici e probabilmente retorici, direi che un autore è un artista con un poetica allo stesso tempo costante e in evoluzione, qualcuno che attraverso le sue opere esprime un punto di vista così minuziosamente particolare sulla realtà da risultare universale, qualcuno che attraverso le sue opere aggiunge qualcosa di rilevante al mio modo di sentire e pensare la realtà (la parola autore deriva dal verbo latino augeo, che significa proprio aggiungo). Oppure prenderei in prestito questo frammento di un articolo di Alberto Asor Rosa uscito su Repubblica il 13 gennaio.
«Il racconto – se la narrazione è racconto, e naturalmente anche viceversa – è un modo d’espressione peculiare della società democratica di massa […]. Quand’è che la narrazione diviene racconto? Lo diviene quando non si limita a tentare di riprodurre la vita, ma cerca di coglierne il senso. Non la vita, ma il senso della vita è – è sempre stato e, secondo me, dovrebbe sempre essere – l’oggetto della grande narrazione. Per sollevarsi dalla massa bisogna cimentarsi con qualcosa che stia dietro alla vita, o meglio dentro alla vita, la parte nascosta, apparentemente invisibile della vita, che un buon racconto fa emergere».
Ciò che Asor Rosa riferisce al raccontare, può benissimo essere trasferito al rappresentare, al mettere in scena. Oggi esiste una moltitudine di “rappresentatori”, frutto della «società democratica di massa», che tenta di riprodurre sulla scena la vita: di solito la propria micragnosissima vita, i cazzi propri raccontati in una sorta di flusso di coscienza con finalità autoterapeutica, si spera; oppure la vita collettiva ridotta a una cronaca da telegiornale, che è poi il vero oggetto d’attenzione di quel clamoroso equivoco estetico che va sotto il nome di “teatro civile” (e tutto il teatro che non si fregia in partenza di questo aggettivo, “civile”, cosa dovrebbe essere, incivile?).
A me sembra che gli spettacoli di Autelli tentino invece di «cimentarsi con qualcosa che stia dietro alla vita, o meglio dentro alla vita, la parte nascosta, apparentemente invisibile della vita». Anche il suo Romeo e Giulietta che in fondo si misurava anche con quel che sta dietro, o meglio dentro il testo, con la parte nascosta dell’opera shakespeariana. Forse è stata la presenza di questa doppio sprofondamento (nella vita e nel testo) a far storcere il naso ai miei vicini di poltrona. Eppure era un inabissarsi che aveva anche qualcosa di lieve, come il candore stralunato della Giulietta adolescente, e allo stesso tempo qualcosa di geometrico, di rigoroso, di coercitivo, com’è nello stile di Autelli. Che Autelli abbia uno stile vi sembra poco, cari vicini di poltrona?
11 Febbraio 2012