Oggi Franco Venturini sul Corriere della Sera elenca le ragioni a favore di un attacco all’Iran. Una simile scelta rischia di far sprofondare il mondo in una recessione più grave di quella di oggi (come sostiene il think tank di Nouriel Roubini), e avrebbe violente ripercussioni in tutti i paesi che appoggiano Israele. Ripercorriamo le giustificazioni date da Venturini, e chiediamoci: sono covincenti?
Il Presidente della Repubblica Islamica dell’Iran, Mahmoud Ahmadinejad, è in carica dal 2005. Completerà il suo secondo e ultimo mandato nel 2013.
Al primo posto Venturini pone il problema della bomba atomica. Chi spinge per l’attacco sostiene che l’Iran stia cercando di fabbricarne una. Ma gli iraniani negano con forza da anni di volerla. Le ispezioni dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (Aiea) finora non hanno trovato prove, nonostante abbiano a disposizione telecamere attive 24 ore su 24 in tutte le centrali. La verità è che l’Iran non sta fabbricando l’atomica e non è un segreto: anche l’amministrazione statunitense lo ammette apertamente per bocca della persona più autorevole, il Segretario alla Difesa.
Si attribuisce all’Iran il peccato della mancanza di collaborazione con l’Aiea. Eppure l’Aiea ha potuto ispezionare tutte le centrali conosciute e le resistenze possono essere spiegare da fatto che il direttore Yukiya Amano è stato scoperto da Wikileaks assicurare agli Stati Uniti il suo pieno supporto contro l’Iran, quindi è meglio non dare più fiducia del necessario agli ispettori.
Giustamente dovremmo chiederci: ma se la stessero costruendo di nascosto, come la utilizzerebbero? Come sostenuto anche da un’ampia e autorevole parte dell’establishment israeliano (tra cui il Ministro della Difesa e l’ex direttore del Mossad) se l’Iran avesse l’atomica non la userebbe contro lo Stato ebraico. L’arma nucleare infatti non è un’arma di attacco, ma una tipica arma di difesa, che viene usata per “deterrenza”, ovvero per convincere gli avversari a non attaccare. L’Iran, se davvero la stesse costruendo, lo farebbe solo per controbilanciare i paesi vicini. In fin dei conti si trova in una delle regioni più bellicose del mondo, dove troviamo quasi tutti i paesi dotati di atomica: Israele, Turchia, Russia, Pakistan e India, nonchè gli Stati Uniti che, con tutte le loro basi, sono la forza militare più potente stanziata vicino al paese.
Al secondo posto Venturini pone l’inefficacia delle sanzioni. Ha ragione, le sanzioni sono inefficaci, ma andrebbe anche detto che gli analisti sostengono da anni che la strategia delle sanzioni serve solo a guadagnare (poco) tempo e ha come effetto quello di peggiorare il dialogo col paese sanzionato. Cito Gino Strada “Tutte le guerre appaiono inevitabili. Lo appaiono sempre quando per anni non si è fatto nulla per evitarle” e questo è un caso da manuale: per anni si avvertiva che le sanzioni aiutavano solo ad avanzare lungo il sentiero che portava alla guerra, ed eccoci qui. Se invece si fosse intrapresa una strategia di apertura avremmo avuto effetti migliori: gli interessi economici, finanziari e politici dell’Iran si sarebbero legati più profondamente a quelli del resto del mondo, rendendo questo paese un attore più responsabile della politica mondiale. Ma gli Stati Uniti già nel 2003 scelsero di mettere l’Iran nell'”Asse del Male“, sebbene Ahmadinejad e la sua violenta retorica nei confronti di Israele sarebbero arrivati solo due anni più tardi.
Il Leader Supremo della Repubblica Islamica dell’Iran, Ali Khamenei. Ricopre il ruolo dal 1989.
Al terzo posto Venturini sostiene tra le righe che la minaccia iraniana di bloccare lo stretto di Hormuz equivale di fatto a minacciare guerra e coglie l’occasione per sostenere l’irresponsabilità della classe politica iraniana. Ma le cose sono andate al contrario: l’Iran dichiarò a dicembre che se l’Europa avesse sanzionato l’Iran sul petrolio, questa scelta sarebbe stata considerata l’inizio di una guerra economica e che quindi la Repubblica islamica avrebbe risposto bloccando lo stretto di Hormuz. Nonostante questa minaccia, l’Europa ha irresponsabilmente approvato le sanzioni. L’Iran tuttavia ha fatto responsabilmente retromarcia, optando per non bloccare lo stretto. L’Iran ha addirittura acconsentito l’entrata nello Stretto alla Lincoln, la nave da guerra più grande degli Stati Uniti, per rassicurare i mercati mondiali.
Al quarto posto Venturini ricorda l’importanza delle elezioni: Obama sotto elezioni non potrà tirarsi indietro e per compiacere l’elettorato dovrà fiancheggiare Israele. Ma un sondaggio pubblicato poche ore fa ci fa sapere che solo il 17 per cento degli elettori americani è favorevole a dichiarare guerra all’Iran. Anche la maggioranza degli Israeliani è contraria. Venturini sostiene che il presidente “non potrebbe starsene con le mani in mano se Israele optasse per l’offensiva e subisse qualche risposta iraniana”. E’ anche vero che Obama avrebbe maggior beneficio presso il proprio elettorato convincendo (o costringendo) Israele a rinunciare all’attacco contro l’Iran.
Al quinto posto Venturini sostiene che non si possa più sperare nel “modello giapponese”, ovvero nel fatto che l’Iran raggiunga la capacità di costruire la bomba atomica senza costruirla. Il motivo per cui questo modello non va bene è che Israele vuole “il monopolio nucleare della regione”. Se questo fosse vero allora dovremmo chiederci: la questione è davvero la sopravvivenza di Israele? E’ giusto accettare che un piccolo stato di 8 milioni di persone costringa tutto il Medio Oriente a rinunciare ai benefici del nucleare pacifico? Solo l’Iran conta 80 milioni di abitanti ed enormi investimenti decennali nel campo nucleare. E’ giusto che tutto questo venga distrutto anche nel caso in cui l’obiettivo sia un pacifico “modello giapponese”?
Akbar Hashemi Rasfanjani è l’uomo d’affari più ricco in Iran. Politico influente, desidera da sempre rapporti migliori con l’Occidente ed è il primo avversario di Ahmadinejad.
Al termine dell’articolo Venturini cita alcuni motivi per cui sarebbe meglio evitare un attacco all’Iran, con particolare enfasi sul problema della crisi economica. Poi conclude sostenendo che purtroppo con l’Iran non c’è speranza di negoziare perché “finora non è mai accaduto”. In realtà negli ultimi dieci anni l’Iran ha compiuto sforzi consistenti per venire incontro alle richieste degli Stati Uniti e di Israele.
Nel 2003 era già incluso nell’asse del male quando l’allora presidente Khatami accettò di chiudere tutte le centrifughe per l’arricchimento dell’uranio, consentendo che quello necessario venisse importato. Chiese soltanto di lasciare aperte, sotto controllo dell’Aiea, alcune centrifughe per motivi di ricerca (in Iran la ricerca è a un livello abbastanza avanzato, tanto che sono una delle sette nazioni al mondo capaci di spedire in orbita satelliti interamente autoprodotti). Ma gli Stati Uniti risposero di no all’accordo, non volevano che in Iran ci fosse nemmeno una centrifuga. Fu una scelta sciocca, perché la proposta iraniana garantiva l’impossibilità per il paese di costruire un arsenale nucleare.
Poi, nel 2006, Ahmadinejad forgiò un nuovo accordo con Lula ed Ergodan: sarebbe stato il Brasile a dare l’uranio arricchito all’Iran, attraverso la Turchia che faceva da garante. Ma gli Stati Uniti non apprezzarono questo inedito triangolo “Turchia-Iran-Brasile” e bocciarono di nuovo.
Quando si sostiene di volere che l’Iran si sieda al tavolo delle trattative bisogna essere disposti ad accettare dei compromessi, ma da parte dell’Occidente così non è stato. Inoltre bisogna essere considerati interlocutori affidabili, ma questo è molto difficile visti i precedenti: in Iran negli ultimi anni ci sono stati molti assassinii di scienziati nucleari, ripetute esplosioni nei magazzini militari, attacchi di virus informatici contro le centrali e attentati terroristici organizzati dal Mossad contro la popolazione civile iraniana che hanno provocato più di 200 morti (vedi Operazione False Flag) Le basi per una trattativa basata sulla fiducia sono molto fragili e non certo solo per colpa dell’Iran, anzi.
Ciò che più mi lascia perplesso leggendo la valanga di articoli sui Pro e i Contro di una guerra con l’Iran, è che manca un vero dibattito sulla cornice morale dell’intervento. Quando siamo andati in Afghanistan e in Iraq i media parlavano di “punizione per l’11 settembre” e “esportazione della democrazia”… insomma, eravamo un po’ indecisi se vendicarci o fargli un favore. Solo che oggi Al Qaeda non è stato debellato, i talebani ci sono ancora, l’Iraq e l’Afghanistan sono sull’orlo della guerra civile e sappiamo che le armi di distruzione di massa che Colin Powell spergiurava esserci non c’erano. In Iraq la “guerra lampo di 48 ore” è durata otto anni, e l’idea delle “guerre preventive” si è persa negli attentati di Madrid e Londra.
Mi sembra che nel dibattito odierno sul “bomb-or-not-to-bomb” si parli troppo di strategie e tatticismi e ci stiamo dimenticando ancora una volta di chiederci se sia moralmente giusto attaccare l’Iran. Manca una riflessione sulle nostre scelte recenti. Penso che dovremmo semplicemente chiederci “ci siamo comportati bene? Cosa possiamo fare per migliorare la situazione?”. Forse perché le domande appaiono banali o perché le risposte sarebbero fastidiose, stiamo evitando di interrogarci su questi aspetti del problema.