Prescindendo dal giudizio personale in merito alla sentenza della Cassazione sullo stupro di gruppo, vorrei soffermarmi sull’eco prodotta dalla divulgazione della notizia che, come commenta egregiamente Scirè qui su Linkiesta, è maggiormente rilevante dato l’universo valoriale cui si riferisce: la distratta recezione della notizia della non obbligarietà di arresto preventivo nei casi di stupro di gruppo mina, infatti, ancor più il rispetto (già spesso oscillante) del cittadino nei confronti della giustizia.
I commentatori hanno parlato di precedente, per dovere di cronaca è necessario ricordare che nell’ordinamento italiano non esiste la nozione di “precedente”, intesa nel senso dello stare decisis del sistema anglosassone, il R.D. 12/1941, infatti, investe la Corte Suprema di Cassazione di una funzione normofilattica ossia quella di garantire l’osservanza e l’uniforme interpretazione della legge. Riferendosi allo stupro di gruppo, di fatto, la Cassazione, ha interpretato in maniera (parzialmente) estensiva la norma. La Corte, infatti, ha applicato allo stupro di gruppo (regolamentato dall’art. 609-octies c.p.) quanto già affermato dalla Corte Costituzionale che, con sentenza 265/2010, si era pronunciata circa la costituzionalità delle modifiche apportare al codice penale dal D.L. 11/2009.
Tale decreto, infatti, convertito, con modificazioni, dalla L. 38/2009, a seguito dell’innalzamento del numero dei reati sessuali, aveva introdotto l’obbligatorietà del carcere preventivo per specifici casi di reato regolati dal codice penale, tra cui l’art. 609 bis – Violenza sessuale – nel caso in cui sussistessero gravi indizi di colpevolezza, prescindendo dalla sussistenza o meno dei requisiti previsti dalla norma ordinaria. Nel 2010, però, la Corte Costituzionale, con sentenza n. 265 del 2010, aveva dichiarato tale modifica incostituzionale a meno che non fossero prodotti elementi specifici, in relazione a singoli casi, dai quali conseguisse che le esigenze cautelari potessero essere soddisfatte con altre le misure.
Nella sentenza si legge: il giudice a quo rileva come molti dei delitti richiamati nel comma 3 dell’art. 275 cod. proc. pen., pur nella loro indubbia gravità, siano comunque meno gravi di altri reati non richiamati, sulla base del raffronto delle relative pene edittali (così, ad esempio, i delitti di cui agli artt. 416 e 416-bis cod. pen.[ Associazione di tipo mafioso N.d.A.], inclusi nell’elenco, sono puniti meno severamente della cessione di sostanze stupefacenti o della rapina aggravata, viceversa esclusi). Risulterebbe, dunque, evidente come la scelta legislativa di imporre, in presenza di esigenze cautelari, la misura «estrema» della custodia in carcere non dipenda da una valutazione «quantitativa» della gravità dei delitti, ma da una valutazione di tipo essenzialmente «qualitativo». […] La eliminazione o riduzione dell’allarme sociale cagionato dal reato del quale l’imputato è accusato, o dal diffondersi di reati dello stesso tipo, o dalla situazione generale nel campo della criminalità più odiosa o più pericolosa, non può essere peraltro annoverata tra le finalità della custodia preventiva e non può essere considerata una sua funzione. La funzione di rimuovere l’allarme sociale cagionato dal reato (e meglio che allarme sociale si direbbe qui pericolo sociale e danno sociale) è una funzione istituzionale della pena perché presuppone, ovviamente, la certezza circa il responsabile del delitto che ha provocato l’allarme e la reazione della società.
Si può ritenere il passo sopracitato punto chiave della sentenza: secondo quanto riportato, infatti, la valutazione fatta sarebbe stata morale piuttosto che meramente giuridica. Porre sullo stesso piano, reati come l’associazione di tipo mafioso alla cessione di sostanze stupefacenti, sembrerebbe irragionevole anche all’occhio di un osservatore non esperto dell’impianto giuridico, il problema si pone, però, quando il giudizio dello stesso osservatore, si addentra in temi legati alla dignità e difesa della persona. La Corte, inoltre e soprattutto, ricorda che la funzione di correzione è prerogativa della pena e non della detenzione cautelare, che ribadiamo è possibile solo quando sussistano i requisiti di eventuale reiterazione del reato, inquinamento delle prove e fuga.
In merito, la Cassazione ha, quindi, esteso le considerazioni della Corte Costituzionale allo stupro di gruppo poiché, pur non essendo espressamente regolamentato dall’art. 609 bis, è stato giudicato connesso alla violenza sessuale, essendone una degenerazione. Nella sentenza (4377/12) la Corte suprema, infatti, si afferma: In modo del tutto corretto le difese hanno sollecitato la Corte a valutare, in primo luogo, se l’art. 275, terzo comma, c.p.p possa essere interpretato in modo coerente coi principi fissati dalla Corte Costituzionale anche con riferimento al reato ex art. 609-octies c.p., e solo in caso di risposta negativa a valutare se sussistano la non manifesta infondatezza e la rilevanza di un quesito da sottoporre alla Corte medesima. Questo giudice ritiene che dalla lettura della citata sentenza della Corte costituzionale emerga l’esistenza di principi interpretativi direttamente applicabili all’art. 275, terzo comma, c.p.p. nella parte in cui disciplina il regime cautelare applicabile a persone raggiunte da gravi indizi del reato ex art. 609-octies c.p.
Si è certi di poter affermare, senza biasimo alcuno, che qualsiasi cittadino/a, alla lettura della decisione della Cassazione, si sia sentito offeso e oltraggiato poiché ha interpretato la non obbligatorietà della carcerazione preventiva per lo stupro di gruppo, come una vessazione nei confronti delle possibili vittime future. Come sempre risulta delicato e politicamente rilevante, commentare simili notizie: la valutazione soggettiva di un lettore può determinare conseguenze nefaste a livello sociale, non ammettere, infatti, al momento della diffusione della notizia, che esista una sostanziale non conoscenza del diritto (di cui il cittadino non può essere ritenuto colpevole), equivale a sottovalutare la confusione che può essere generata dalla pubblicazione della notizia stessa.
Certi della necessità del diritto di cronaca, ci si chiede se il legislatore abbia la possibilità di ristabilire un più equilibrato rapporto tra giustizia effettiva e percezione della stessa. Da non addetti ai lavori, si potrebbe proporre, un inasprimento delle pene nei confronti dello stupro di gruppo, rendendo quest’ultimo una più grave fattispecie di reato, di cui venga rimarcata la violenta premeditazione, non potendo credere all’ipotesi di una contemporanea presenza di più soggetti affetti da patologie mentali.
Il problema è che il diritto non si basa sulle valutazioni del singolo osservatore, poiché se la maggior parte di noi considera lo stupro di gruppo, la bestiale traduzione del concetto di sottomissione femminile all’uomo, rievocazione del diritto di uso e abuso della donna da parte del branco tribale, il legislatore, grazie al sistema garantista vigente nel nostro Paese, deve fare le sue considerazioni su un piano ben diverso da quello del desiderio collettivo (giustissimo) di severe pene comminate ai carnefici.
La peculiarità della questione riporta, quindi, il discorso dal tecnicismo giuridico alla morale pubblica: la giustizia o la sua negazione, determinano un insegnamento morale più vincolante nei confronti degli estranei ai termini e concetti giuridici piuttosto che agli addetti ai lavori. Avvocati o giudici rileverebbero, infatti, in maniera quasi atonica, l’operato corretto della Corte, rimarcando la necessità che sia un ragionevole processo a decidere in merito alla colpevolezza, garantendo ai singoli imputati il diritto di innocenza fino a sentenza passata in giudicato.
Il commentatore indignato, invece, riporta la notizia con quel tono afasico di rinuncia tipico di chi ormai non crede più nella giustizia, dato per altro già ampiamente rilevato nel Paese, evidenziando quale sia il vero il tratto su cui chi ci governa dovrebbe riflettere. Chi non crede che la giustizia sia equa (e sono in molti a ritenerlo) potrebbe, addirittura, erigere un sistema di equità parallelo e molto più pericoloso di qualsiasi insurrezione politica: un sistema che mini il concetto di Stato nelle sue radici profonde, negando di fatto la liceità di qualsiasi imposizione legislativa.
Da femminista questa volta apparentemente controcorrente, ritengo che la Cassazione abbia semplicemente garantito quanto già stabilito dalla Corte Costituzionale, ho voluto però approfondire i tecnicismi legali, (sperando di non aver riportato i dati erroneamente), non per oppormi all’indignazione che si è scatenata e di cui sottoscrivo il senso, perché come ho cercato di rimarcare più volte, è più significativo percepire un generale senso di ingiustizia che vedere la giurisprudenza garantista applicata. Non è un caso se le persone, soprattutto le donne principali vittime della barbarie-stupro, si stanno rivoltando: nel nostro Paese è, a ragion veduta, diffusa l’incertezza che alla fine del processo sia garantita la pena per i colpevoli, si ha, inoltre, il ragionevole dubbio che le vittime possano oltretutto sentirsi derise da sentenze che propugnino ingiustificate attenuanti oltremodo lesive della dignità della donna e della persona in generale.
Il problema di questo Paese, infatti, non è la mancata severità pre-processuale, ma la non rara assurda debolezza delle pene comminate ad accertati colpevoli.
Ai posteri l’ardua sentenza.
Per approfondimenti:
Decreto legge 11/2009: http://www.camera.it/parlam/leggi/decreti/09011d.htm
Sentenza Corte Costituzionale 265/2010: http://www.giurcost.org/decisioni/2010/0265s-10.html