«La legislazione economica deve essere messa in mano agli interessati? Un provvedimento legislativo deve essere considerato come utile alla generalità, conveniente al paese quanto riporti il suffragio degli interessati?»
Queste domande non sono affatto nuove, ma rappresentano quesiti ai quali chi aspiri al buongoverno dovrebbe rispondere. E rispondere senza reticenza.
Noi abbiamo ambizioni assai più modeste, ma un impegno assunto coi lettori di queste colonne, ovvero l’impegno di voler parlar chiaro e di non nascondere le nostre convinzioni, anche, se non soprattutto, quando sono scomode ed indigeste, ci impone di dire come la pensiamo.
Ci pare di poter sostenere che, in linea di principio, ad entrambe le domande chi vuol render servizio ad un paese dovrebbe risponder di no.
Chi propende, ed in Italia pare siano i più, a fornirvi risposta positiva, consapevolmente o inconsapevolmente ambisce a trasformare la rappresentanza politica in rappresentanza di interessi.
Più che di trasformazione, sia detto di passata, si tratterebbe di una regressione. Ma questo è il nostro giudizio, che è giudizio minoritario e quindi recessivo.
La rappresentanza di interessi, infatti, venne posta a fondamento non solo dello stato dichiaratamente corporativo (quello fascista), ma sopravvisse a simili deleterie esperienze sotto le spoglie del neocorporativismo, per molto tempo bandiera di rispettabilissime esperienze socialdemocratiche.
Tale modello di composizione del conflitto sociale, che presupponeva un intervento attivo e non neutrale dello Stato, fu a tal punto vincente che divenne appannaggio non solo delle forze socialdemocratiche ma venne mantenuto, senza scalfiture, anche dai loro avversari conservatori. Fu, tanto per esemplificare, quella che Ralph Dahrendorf chiamò la fase del “consenso socialdemocratico”, e che durò, in Europa, sino alla fine degli anni ’70.
L’Italia, che nel contesto europeo ha sempre viaggiato con almeno tre lustri di ritardo, aveva già perduto il treno della politica dei redditi di La Malfa e Giolitti (rispettivamente: senior e junior), ed aveva sperimentato una versione del tutto peculiare di neocorporativismo, ovvero il consociativismo, che ci lasciò, in eredità, la corbelleria dei salari variabile indipendente, la spesa pubblica fuori controllo ed una zodiacale cultura dei diritti a costo zero.
E’ solo nel ‘92-’93, nella temperie di Tangentopoli, che l’allora premier Ciampi recupera il meglio di quella tradizione e reinventa, con maggior rigore e con risultati non peregrini, la concertazione tra le parti sociali, con un ruolo attivo del Governo nella ricerca di un accordo.
Si trattò, nella sostanza, di far assumere a sindacati dei lavoratori e degli imprenditori, un nuovo ruolo, quello di attori, o quantomeno compartecipi, di scelte di politica macroeconomica (appunto, la vecchia politica dei redditi, i tassi di inflazione programmata, il controllo della spesa pubblica, nuovi modelli di relazioni industriali), abbandonando l’ambito proprio del conflitto microeconomico, legato alla negoziazione dei contratti collettivi e via discorrendo.
Sarà stata la particolare qualità degli interlocutori, sarà stata la contingenza storica, con partiti squalificati e sfiduciati, fatto si è che il modello funzionò. E questo nonostante le riserve di principio che abbiamo sempre mantenuto.
Dopo vent’anni, però, quel modello di definizione degli obiettivi di politica economica e di selezione degli interessi si dimostra frusto, slabbrato, sbrecciato, sclerotizzato nella mitologia e nella liturgia del tavolo di negoziazione, coi suoi rituali e con tutti i suoi limiti. E, soprattutto, con il potere di veto che esso inevitabilmente attribuisce a ciascuno dei concertatori.
La rappresentanza politica, infatti, è cosa assai diversa della rappresentanza di interessi che, per quanto collettivi, restano settoriali e parziali.
I più svariati rappresentanti di interessi, infatti, non riusciranno mai a costituire una reale rappresentanza degli interessi concretamente presenti in una data società. Non riusciranno mai a rappresentare gli interessi futuri o quelli dei non ancora nati. Questo perché la realtà dei fatti è assai più fantasiosa della presunzione degli organizzatori, degli ingegneri sociali, dei pianificatori: insomma, di tutti coloro che s’illudono di poter metter le braghe al mondo.
Sarà anche vero che il feticismo dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, da ambo le barricate, è eccessivo rispetto alla sua concreta applicabilità. Ma, oggi, dovrebbe essere innegabile che qualsiasi norma imperativa, di protezione, frutto di una specifica scelta di valore, in tanto mantiene una sua utilità in quanto quella protezione riesca ad esser guarnita di una sanzione efficace.
Così, il superamento della dimensione nazionale nella sfera economica – ovvero la globalizzazione – ha minato un sistema di tutele che avevano quale presupposto la loro applicazione su base territoriale nazionale, in contesti in cui la delocalizzazione delle imprese era di là da venire.
Ed ancora, qualcuno dovrà pur rendersi conto che il riconoscimento della universalità dei diritti sociali ha concretizzato un esempio vivente della “tragedia dei comuni” di cui scriveva Garrett Hardin nel 1968, con gli utilizzatori, o invocatori, di risorse comuni incapaci di comprendere l’onere collettivo, e quindi pubblico, che esse comportavano e, di conserva, l’alternativa tra la bancarotta e la negazione di quegli stessi diritti agli ultimi venuti.
E’ al politico che spetta di scomporre e ricomporre i singoli interessi individuali, collettivi, generazionali, siano essi organizzati o meno, e farne, se ne ha la stoffa, una sintesi che si chiama, per l’appunto, interesse generale.
E su questa sintesi si dovrebbe condurre la battaglia politica tra fazioni.
Non abbiamo avuto grandi esempi nel recentissimo passato: con maggioranze parlamentari amplissime, il laurismo del Nord del Cavaliere ha gabbato gli italiani contrabbandando i suoi interessi per quelli generali. Le forze di sinistra, variamente intese, hanno pagato caro l’incapacità di abbandonare la vecchia mitologia delle cinghie di trasmissione, restando mortalmente vittime del ricatto sindacale.
Si consultino gli interessati, tutti gli interessati, ma deliberi il parlamento, sotto la propria responsabilità.
Abbiamo la certezza che queste decisioni saranno le migliori? Evidentemente no.
Da liberali, rincresce dirlo, non abbiamo nessun paradiso da opporre ad altri paradisi. Non abbiamo formule, risorse, congegni, miti di salvezza o altre alcinesche seduzioni da offrire. Ci limitiamo a qualche suggerimento, circondato – come usava dire – dalla duplice riserva delusiva della sua provvisorietà e parzialità.
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Nota dell’Autore: I quesiti sono di Luigi Einaudi, in Il Buongoverno, Bari, 1955. Molte le suggestioni di P. Gentile, in il Mondo, passim.