Blow-UpFelice Beato, quando la fotografia cercava un’ineffabile perfezione

Che Felice Beato, nato da padre corfiota e madre veneziana quando sull'isolotto ionico sventolava ancora l'Union Jack, fosse stato una specie molto particolare di individuo e soprattutto di fotogra...

Che Felice Beato, nato da padre corfiota e madre veneziana quando sull’isolotto ionico sventolava ancora l’Union Jack, fosse stato una specie molto particolare di individuo e soprattutto di fotografo, nessuno lo ignorava. Ma che fosse stato persino un talento in campo commerciale, forse pochi lo avrebbero pensato. Eppure fu proprio così. Dopo anni di avventurose peripezie per il continente asiatico, il reporter della presa di Tientsin, del sacco del Palazzo Imperiale d’Estate e dell’occupazione militare di Pechino sbarcò nel 1863 sull’isola degli Shogun e lì decise di abbandonare il sensazionalismo-sanguinolento della cronaca bellica per dedicarsi anima e corpo a un genere di fotografia in apparenza più morbido, più edulcorato e aggraziato, ma in grado di esercitare un’attrazione talmente irresistibile sullo spettatore d’oltreoceano da far invidia a qualsiasi impresa fotogiornalistica.

Dopo secoli di isolamento il Giappone che incontrò questo Marco Polo di fin du siècle era da poco tornato ad aprirsi agli scambi sia diplomatici che economici con l’Europa e con gli Stati Uniti. L’astro del Sol Levante era risorto ad Occidente e poteva manifestarsi come un nuovo orizzonte ideale per il granturismo borghese affamato di territori esotici.
Beato non si lasciò scappare la grande occasione e, con una destrezza davvero fulminea, pensò d’impiegare la macchina fotografica, il medium capace più di ogni altro di influenzare la percezione della realtà in modo subliminale e duraturo, nella messa in scena di un fantastico sogno collettivo. L’immagine della fotografia, con la stessa infallibile precisione con cui fin dalla nascita aveva accertato le istanze della natura e della vita quotidiana, ora poteva finalmente occultarle, poteva fuggire verso luoghi irreali, dirigersi (ma anche smarrirsi) alla volta di lontananze geografiche siderali come accadeva nei viaggi più misteriosi e affascinanti. La voglia di fuoriuscire dall’ordinario avventurandosi in terre straniere, semisconosciute, mitiche e incantate al tempo stesso, si sarebbe impossessata delle fantasie latenti del pubblico e un giorno avrebbe spinto chiunque a diventare turista e a ritrovare quelle magiche illusioni contemplate sulla carta.

Non appena che la seduzione esotica, sdoppiata e virtualmente “avvicinata” dalla fotografia, si fosse resa praticabile attraverso un’esperienza diretta, l’eterno mito occidentale dell’evasione liberatoria nei paradisi orientali avrebbe preso le fattezze di una grande vacanza turistica di massa.
Tuttavia, e di questo l’ex-reporter di guerra ne era più che consapevole, le visioni arcaiche, i luoghi letterari, le figure e i personaggi leggendari una volta raggiunte e ritrovate non dovevano discostarsi troppo dalle narrazioni originarie. Niente caccia dell’inedito, allora, o alla sorpresa stupefacente, bensì collaudo di un consenso, conferma di un processo d’immedesimazione già in atto. Gli archetipi si dovevano tramutare in stereotipi, e l’esotismo diventare una passione di moda.
Felice Beato, dopo aver previsto tutto questo, introdusse, con colpo da maestro, nelle stampe all’albumina e al collodio molto in voga in quel momento l’uso artistico del pigmento cromatico. Non solo allo scopo di accrescere la verosimiglianza, ma sopratutto per simulare gli effetti grafici delle stampe provenienti dalla pittura di Hokusai e Hiroshige, ampiamente diffuse e apprezzate fra il pubblico colto della vecchia Europa. Dapprima si servì dell’abilissima mano di Charles Wirkman, pittore inglese con cui aprì uno studio foto-pittorico destinato a divenire celebre, ma poi andò a chiedere aiuto direttamente alle maestranze locali meglio addestrate. Da esse emersero i personaggi che di lì a poco avrebbero fondato grandi botteghe ed eccellenti scuole artigianali ( tra cui quella omonima di “Yokohama”) gran vanto della fotografia pittorica giapponese a cavallo fra Otto e Novecento.

Dopo questo periodo iniziale il testimone passò nelle mani del barone boemo Raimund Von Stillfried-Ratenicz, il quale raccolse il repertorio canonico delle geishe, dei samurai, delle scenette in costume, dei paesaggi boschivi e dei panorami architettonici tingendolo però di tante piacevolezze erotiche. Un’altra trovata geniale che nella fotografia esotica e di evasione in genere, per vocazione più propense alla rottura dei tabù e delle regole morali, trovò un terreno molto fertile. Tutti i suoi trucchi e i suoi meravigliosi apparati scenici proto-cinematografici, tesi a reinventare a scopo elogiativo e celebrativo l’antica civiltà perduta, vennero appresi e conservati dal primo grande autore giapponese dell’epoca, Kusakabe Kimbei, già assistente dell’anglo-italiano. Specializzato in scenette di gusto retrò molto nostalgiche ma molto amate dai visitatori stranieri, diventò famoso per l’invenzione del ritratto femminile “di spalle”, stratagemma indispensabile per disegnare figurine in sagome eleganti e misteriose, una formula molto sperimentata, negli anni della Grande Guerra, dal barone Adolf de Meyer.

La passione per le costruzioni teatrali, in nome del revival, s’impossessò anche del fascinoso ed enigmatico obiettivo di Ogawa Kasumasa, il maestro delle nature morte. I suoi raffinatissimi studi su molteplici specie floreali (gigli, crisantemi, iris, fiori di loto, camelie ecc.), con lunghi steli agili, flessuosi e sensuali, morbide corolle languide e fortemente ambigue, sarebbero arrivatre a suggestionare anche l’immaginario postmoderno di un autore come Robert Mapplethorpe. E come aveva fatto Beato prima di lui, Kasumasa seppe affiancare alla sorprendente abilità artistica, tutta votata al culto della tradizione e alla sopravvivenza dei fantasmi del passato, un grande talento per l’impresa e il marketing con cui rivoluzionò la fotografia delle origini: da sofisticato passatempo artigianale per amateurs a capitolo chiave nella storia dell’industria culturale nipponica.

Di questo e di molto altro ancora racconta la splendida mostra tuttora in corso Fotografia del Giappone (1860-1910) – I capolavori, organizzata dall’Istituto veneto di Scienze, Lettere e Arti presso il prestigioso Palazzo Franchetti di Venezia, fino a marzo 2012. Una rara occasione per ritrovare un mondo a lungo sognato e che in fondo è stato anche un po’ nostro.

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