Marta che guardaHugo Cabret, di Martin Scorsese

Il fatto è che più ci penso, più dubbi mi vengono. Per carità, Hugo Cabret è un’encomiabile ode al cinema, pulsante d’amore, quasi commovente nel suo intento, visto che l’ha girata uno che al cin...

Il fatto è che più ci penso, più dubbi mi vengono.

Per carità, Hugo Cabret è un’encomiabile ode al cinema, pulsante d’amore, quasi commovente nel suo intento, visto che l’ha girata uno che al cinema ha dedicato davvero la vita. In particolare è un tributo al cinema come macchina dei sogni, come luogo dove tutto è possibile, regno dell’immaginazione senza catene dove tutto finisce sempre bene (al contrario di quanto avviene nella realtà, cit.) e soprattutto dove la magia comanda e fa volare le sue ali.

Non a caso la vicenda del piccolo Hugo si intreccia con quella di Georges Méliès, nato come prestigiatore a fine Ottocento e poi inventore del filone fantastico del cinema allora nascente. I momenti più belli del film, infatti, sono proprio quelli in cui Scorsese ci mostra come il coraggioso ed entusiasta Méliès realizzava gli effetti speciali: tutto un trafficare con enormi scenografie di cartapesta, esplosioni, fumi e scintille creati ad hoc dentro allo studio-teatro che si era costruito, trucchi di scena fatti di finte barbe, finte ali e finte code di sirena, e un sapiente uso della macchina da presa e anche della pellicola, cui tagliava fotogrammi per generare magie e che dipingeva a mano in una post produzione artigianale e tenerissima vista oggi, dove un computer è in grado di fare tutto e di più. I momenti più belli li vivi davanti ai filmati di repertorio: il treno dei fratelli Lumière, un Buster Keaton geniale per l’eternità, Charlot e il suo monello, il razzo contro una luna che sembra fatta di crema… Non manca niente. In un continuo gioco di rimando che fa godere chi lo capisce.

Il film in sé, però, non suscita la stessa meraviglia. Non lascia a bocca aperta, sospesi tra la sorpresa e la soggezione, come a volte capita ancora oggi di fronte ai migliori film che si nutrono di effetti visivi. Non c’è poesia, se non quella che risuona dagli spezzoni d’essai. La trama è quella che è, e a volte ci si annoia un po’. E non basta il 3D per segnare una continuità con il fantastico di Méliès. Anche perché qui la terza dimensione crea giochi di visione divertenti, che però impallidiscono se si pensa al 3D di Avatar (per restare nell’ambito di film per ragazzi), capace davvero di far trattenere il fiato per l’emozione.

Ci sono tante belle idee, questo sì: la stazione vista attraverso gli ingranaggi degli orologi giganti che indicano l’ora ai viaggiatori, l’automa triste e un po’ inquietante da rotto, che ritrova una sua dolcezza quando viene aggiustato, e il concetto ripetuto più volte che anche noi, se perdiamo lo scopo che ci appartiene come persone, diventiamo meccanismi rotti e tanto tristi. Detto questo, però, il film resta troppo “fumettoso”, impacciato, quasi trascurato nella sua parte drammaturgica. E il fatto che sia pensato per i ragazzi, duole dirlo, non è una giustificazione. Specialmente se il regista è uno che si chiama Martin Scorsese, mica bruscolini.

X