“Penso che un fotografo che sia realmente tale non può essere che uno scrittore che si esprime per immagini”
Ecco, non c’è un modo migliore per ricordare Enzo Sellerio, grande fotografo italiano, scomparso il 22 febbraio all’età di ottantotto anni. E questo non può che venire dalle sue stesse parole. Da quello che nel gergo della critica d’arte si chiama una dichiarazione di poetica: quando cioè è l’autore stesso a fornirci la chiave per capire il suo lavoro creativo. Certo, la viva voce dell’artista non è oracolo di verità inconfutabili, ma comunque è un’ottima guida sulle piste non sempre diritte e lineari su cui scorre un’esistenza fuori dal comune. L’arte è sempre un progetto rivolto al conseguimento di un obiettivo. Ed è proprio su questo che vogliamo soffermarci, evitando, anche perché altri lo hanno fatto meglio di noi, il protocollo del necrologio.
Sellerio ha definito il suo obiettivo mirandovi costantemente, trasformando la pratica quotidiana in una sorta di missione. Parlarne, oggi, non significa soltanto abbozzare il ritratto dell’autore come artista, ma spingersi oltre; andando ad affrontare un certo modo di intendere la fotografia stessa.
Si sa che “scrivere” si discosta in maniera assai sensibile dal “guardare”, ossia dall’atto che è più prossimo al procedimento fotografico: del resto la macchina come prolungamento artificiale dell’organo della vista è metafora originaria per la storia della fotografia. Mentre invece lo “scrivere” è decisamente contiguo al “vedere”, o meglio al “far vedere”, poiché entrambi riguardano gli effetti dell’osservazione. Questa distinzione funzionale, per Enzo Sellerio, fonda l’intera fotografia, che così cessa di essere simile allo spionaggio voyeuristico, alla mossa rapace del reporter lestissimo nel rubare di nascosto, à pas de loup, come avrebbe sussurrato Cartier-Bresson, tutti i segreti della realtà e del mondo. Al contrario la fa avvicinare al gesto trasfigurante dello scrittore che attraversa la stessa realtà, lo stesso mondo, ma al fine di esprimerne i significati, di dare un senso ulteriore alle cose.
La lezione insita nella suddetta formula non era affatto riconducibile alle norme estetiche del secondo dopoguerra, sopratutto in Italia.
Questo fu chiaro fin dalla prima raccolta fotografica di Sellerio, Borgo di Dio, un’indagine foto-documentaria di taglio etnografico sulla comunità di Danilo Dolci a Partinico, pubblicata nel 1955 sulle pagine di “Cinema Nuovo”. Quando, contro le intenzioni dell’autore, fu usata per fare da stampella all’ormai claudicante estetica del neorealismo, purtroppo senza considerare l’opportunità di una lettura diversa. Un realismo eccentrico, irregolare, non allineato alle convenzioni vigenti, ma orientato nel segno dell’innovazione o meglio del rinnovamento della percezione. Un realismo come non si era mai visto prima; un altro modo di posare l’attenzione sui fatti. Su questa strada si erano già mossi, per conto proprio, Leo Longanesi, transitato da “Cinema Nuovo” a “Omnibus” ed Elio Vittorini, che, in coppia con Luigi Crocenzi, avevano affrontato l’avventura fotografica posta all’origine di “Conversazione in Sicilia”. Due esempi troppo avanguardisti per il reportagismo di stampo sociale che, qui da noi, non accettava riforme né superamenti.
Vennero in seguito gli anni delle verifiche sulla portata anticonformista di certe scelte: la mostra alla Galleria dell’Obelisco in Roma, un luogo semi-proibito ai fotoreporter, agli artigiani (agli “scrivani” come li apostrofavano in provincia) dell’immagine; e la fertile collaborazione con “Il Mondo”, erede di quella favolosa anomalia editoriale che era stato “Omnibus”. Il periodico di Pannunzio, d’impostazione crociana ma critica e ragionata, aperta a sinistra negli interventi, quindi decisamente liberale e antidogmatica, piaceva a un intellettuale come Sellerio, perché in esso si dava rilievo a una fotografia di contenuto e non di forma fine a se stessa, perché si rinunciava agli stereotipi esteriori da realismo patetico-sociale ma anche alle belle composizioni grafiche dettate dal modernismo Bauhaus.
Sellerio vi s’identificava in toto, puntando a rivelare, con stupore e ironia, i simboli, le allusioni colti fra le comuni apparenze della scena quotidiana e in questo traendo ispirazione dagli esempi magistrali della “Révolution surréaliste” e di “Minotaure”. La cattura dell’objet trouvé, il montaggio imprevedibile di azioni e situazioni, il racconto interrotto sul filo dell’equivoco e del nonsense, l’effetto di straniamento. All’interno di un tale circuito di stimoli di matrice europea si inseriva anche un “certo” Cartier-Bresson, condiviso nelle soluzioni tecniche ma non del tutto nell’intransigenza formalistica. E proprio questa adozione di molteplici influenze che però non diventava mai devozione assoluta, fece della fotografia di Sellerio un esercizio di liberazione, di abrogazione dei codici a favore di una ricerca personalizzata, profonda e interiore. Tuttavia l’apice di questo percorso di emancipazione, e in fondo di “sprovincializzazione”, individuabile dapprima nel reportage sulla città di Palermo del 1961 e poi, come sua logica conseguenza, nello studio sulla civiltà rurale siciliana, Paesi dell’Etna del 1964, poterono accontentarlo solo in parte. Il primo, partito infatti all’insegna dell’autonomia estetica ed espressiva, si era ben presto trasformato in una costruzione pilotata a distanza dall’art-director della rivista tedesca “du”, vale a dire in un’operazione mirata nonché subordinata alle regole dell’editoria e del mercato.
Il secondo, invece, dopo un esordio analogo, si era polverizzato fra differenti destinatari le cui autorità governavano sovrane e suscitavano forti malintesi, come nel caso di Sciascia che con la sua prosa accentratrice eclissò rapidamente le ipotesi suscitate de Sellerio su Sicilia e Sicilianità.
In fondo però questi scontri e contraddizioni consentono, a distanza di tempo, di mettere in evidenza, come dicevamo all’inizio, certi aspetti peculiari dell’immagine fotografica. Torna utile, ancora una volta, la distinzione fra guardare e scrivere; fra un’osservazione esatta, una registrazione mimetica e una visione “simbolica” come se si trattasse di una speciale tecnica scrittoria, carica di gioco ed ironia, di illusioni e spiazzamenti; felice di affidarsi alla creazione provvidenziale dell’imprevisto e del caso. Una specie di surrealismo “strettamente personale” in opposizione alle certezze e alle ovvietà del realismo, naturalmente, popolare, ma anche al codice “matematico” e invariante dell’editoria modernista.
Per Sellerio era del tutto chiaro che solo ribaltando le aspettative e le consuetudini la realtà avrebbe potuto manifestarsi in forma di allegoria o di memoria, sia individuale che collettiva. Spesso amava ripetere: “è il collegamento tra la percezione e la memoria, quello che fa la differenza fra l’essere e il non essere fotografo, fra il guardare e il vedere.”
Scontri e contraddizioni, cause di malessere e di delusioni portarono Enzo Sellerio, sul finire degli anni sessanta, a praticare “la regola del self-service”, visto che il tanto inseguito accordo fra fotografia e letteratura non poteva riflettersi al di fuori dell’immagine. Per sua fortuna egli era dotato di un doppio talento, piuttosto raro: saper cercare forme e oggetti con lo sguardo per poi riuscire a tradurli con le parole. Non solo quelle implicite nelle visioni, ma anche quelle leggibili nei testi. Su questo passaggio si decise il suo destino. Quando la forza evocativa della lingua fotografica venne soffocata e resa intraducibile dal peso e dalle esigenze dei media, dell’industria culturale, della società dei consumi, il fotografo tornò alla sua patria naturale; a nascondere le immagini dietro a un velo d’inchiostro, ma stavolta tracciato sulle pagine di un libro.