Ci risiamo! Il Corriere della Sera del 31 gennaio ha dato notizia, con un articolo del corrispondente da Londra, Fabio Cavalera, della riduzione attuata sul corpo dell’Ivanhoe di Walter Scott. Riduzione attuata da David Purdie, presidente del Sir Waler Scott Club (quasi tutte simili associazioni sono, si sa, funeste), con forbici spietate; il testo è passato, così ci viene detto, da 179.000 a 80.000 parole, con un taglio perciò superiore al 50% del testo. Naturalmente il gagliardo sarto non si è limitato a tagliare, ha anche pensato che il testo fosse oggi illeggibile, e ha provveduto perciò a modernizzarlo, giacché, secondo le parole che l’articolo gli attribuisce tra virgolette, «pochissimi scozzesi lo leggono al giorno d’oggi, è troppo lungo, prolisso e difficile, specie per i giovani». Due considerazioni si impongono: a) cosa permette all’esimio Purdie di sostituirsi, nel suo giudizio, ai giovani? Lasci siano loro a decidere. Per ragioni professionali, sono a contatto con loro giornalmente, e precisamente sui testi. Posso assicurare che la maggior parte di essi si ribellerebbe a una simile, in questo caso veramente stolidamente paternalistica, imposizione (tutt’al più si limiterebbero a non andare avanti in un libro che non li appassionasse, come tutti fanno). E soprattutto: b) chi decide, e in base a quale criterio, cosa va tagliato? Prendiamo il caso (ma gli esempî sarebbero naturalmente infiniti) di un testo conosciuto e ammirato, si suppone, da molti, il Doktor Faustus di Thomas Mann. C’è da tremare all’idea di un consanguineo della sciagurataggine di Purdie. Magari eliminerebbe con un taglio chirurgico l’intero terzo capitolo, dove l’autore si lancia in una sbalorditiva prova di bravura per mostrare gli incerti confini tra mondo animale e mondo vegetale. Pura descrizione, si dirà. Invece, e a chi ha sensibilità letteraria la cosa pare evidente da subito, si tratta di una sorta di condensazione allegorica dell’intera tragedia del romanzo. Se dopo averlo terminato si torna indietro, lo si percepisce con chiarezza. La descrizione, come insegnano quelle dello scudo di Achille e di quello di Enea, rispettivamente nell’Iliade e nell’Eneide, sono, almeno nei grandi testi, stasi apparente.
Questo per quanto riguarda i tagli. C’è poi l’altro aspetto, quello delle modernizzazioni. Capitolo non meno insidioso e ricco di precedenti negativi. Qui si possono fare esempî non meno clamorosi, e soprattutto più familiari al lettore italiano. C’è stato (e la cosa è imbarazzante perché si tratta di studiosi di vaglia) chi ha “attualizzato” niente meno che Leopardi; chi è intervenuto a rendere più digeribile (si fa per dire) la prosa di Machiavelli, cioè di uno degli scrittori di piglio inconfondibile e nerbo formidabile della nostra letteratura, che è stato così letteralmente imbolsito fino a essere, nella sua trasposizione moderna, davvero illeggibile; chi ha fatto agire dubbie alchimie modernizzanti sul Cortegiano di Castiglione. Sempre e infallibilmente si è trattato di un regresso; regresso soprattutto del piacere della lettura.
Si dirà che da tempo le versioni raccorciate sono in auge, il che è vero. Basta sapere di cosa si sta parlando, e dedurne perciò che si tratta, anche in questo caso, di vere e proprie censure, attuate per ragioni non meno insensate (e più frivole e narcisistiche) delle censure, diciamo così, storiche. Perché qualcuno decide che quel testo così non può più stare. In nome di che cosa? Tutto ciò sembra partire da un malinteso senso di servizio alla collettività, che non per niente, e fortunatamente, finora ha fatto spallucce a quelle pretese. I lettori di Machiavelli e di Leopardi non sono certo aumentati per quelle avventate sperimentazioni, e le hanno debitamente lasciate andare al macero. Ma c’è da dire qualcosa di più specifico. Quello che maggiormente stupisce in simili esercizî è la sconfinata presunzione di chi decide di metter mano a forbici, colla e bianchetto (ormai elettronici). Senza considerare che proprio la distanza storica da un testo è qualcosa che racchiude un senso, quello della differenza, sempre carico di significato. E tale divario tocca ogni aspetto del testo, fonetica, lessico, morfologia, sintassi. Portando ciascuno di questi aspetti verso il nostro tempo noi aboliamo precisamente quella lontananza che, certificandoci delle differenze, si mostra ancora capace di suscitare interrogativi sul nostro presente. Se tutto diventa presente, posticcio presente anzi, di cosa ci potremo mai veramente appassionare? Si direbbe si sia in presenza di una strategia totalitaria; debitamente travestita, si capisce, da ansia di democratica diffusione della cultura.
2 Febbraio 2012