Marta che guardaMoneyball – L’arte di vincere, di Bennett Miller

Il primo problema è Brad Pitt. Che non fa altro che masticare e sputare. Mastica-sputa, mastica-sputa, mastica-sputa. E che diamine! E siccome il film è candidato all’Oscar per il miglior sonoro (t...

Il primo problema è Brad Pitt.
Che non fa altro che masticare e sputare.
Mastica-sputa, mastica-sputa, mastica-sputa.
E che diamine!
E siccome il film è candidato all’Oscar per il miglior sonoro (tra le altre cose), queste tre attività orali dell’uomo più biondo del mondo sono super amplificate, come in un incubo. Ogni movimento di mascella, ogni schiocco di lingua, ogni sussulto di glottide ti penetra nelle orecchie, e non è cosa gradevole.
Il secondo problema, ma questo è molto personale, è che di baseball io non capisco niente. Non capivo niente prima di vedere il film e non capisco niente neppure adesso, dopo due ore passate sul campo.
Perché di questo tratta L’arte di vincere. Brad Pitt è il general manager di una squadra sfigatissima e poverissima, che perde i suoi migliori giocatori perché non può permetterseli. A un certo punto però Brad incontra un ciccione nerd laureato in economia che gli spiega che se non ascolti il cuore, ma il pc, puoi mettere insieme una squadra vincente: prendi a pochi dollari gli scarti delle altre squadre, li fai giocare come dice il computer e sei a posto.

Pitt gli crede, contro tutto e contro tutti, e fa bene. Anche se lo capisci solo a tre quarti che fa bene. Prima è tutto un precipitare verso il disastro che ti mette un’ansia che mollami. Ma siccome è un film americano continui a ripeterti di stare tranquilla, perché lì il lieto fine è obbligatorio, quindi rilassati, dai.
In realtà il lieto fine non è esattamente quello che ti aspetti, ed è uno dei meriti di questo film che non è male, se riesci ad attivare un udito selettivo.
Perché baseball a parte, è della forza di un sogno che si parla, un sogno che nessuna somma di denaro potrà mai comprare. E c’è tutta l’abilità degli americani di raccontare queste storie “eroiche”, con quella retorica così ben orchestrata che ti tira in mezzo sempre, anche se non vuoi.
Anche se passi il tempo con le mani sulle orecchie, inutili barriere contro i rumori molesti dell’attore protagonista. Anche se non capisci niente di almeno metà delle cose che succedono.

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