Marta che guardaParadiso amaro, di Alexander Payne

Si può essere leggeri quando si parla di morte. Si può anche essere buffi quando si mette in scena il dolore. Si può far sorridere, pur evitando la via del cinismo, che spesso è sterile e fastidios...

Si può essere leggeri quando si parla di morte.
Si può anche essere buffi quando si mette in scena il dolore.
Si può far sorridere, pur evitando la via del cinismo, che spesso è sterile e fastidiosamente compiaciuta.
Si può essere leggeri, senza mai essere superficiali. O ridicoli.
Lo dimostra bene Paradiso Amaro, un film che pensavo fosse un po’ un’americanata nel senso peggiore del termine e invece lo è nel senso migliore.
George Clooney è Matt King, un avvocato ricchissimo, discendente di una principessa delle Hawaii e di un ricco possidente bianco, marito e padre distratto, ma di solidi principi (“Dai ai tuoi figli abbastanza perché possano fare qualcosa, ma non abbastanza perché possano non fare niente”).
Ha una moglie tosta e super sportiva e due figlie di 16 e 10 anni, ribelli e toste come la madre.
La moglie, facendo sci nautico o qualcosa del genere, cade, batte la testa e va in coma, che presto si saprà essere irreversibile e quindi, secondo il testamento biologico della donna, bisognerà staccare le macchine che la tengono in vita. Matt si ritrova a gestire la situazione, soprattutto a essere padre e solo per la prima volta. Ma il punto del film non è questo. Il punto è che scopre che la donna aveva un’amante e che lo voleva lasciare.

La materia è scottante. Si poteva fare un film strappa lacrime-come-se-piovessero, o invece un film bergmaniano, che sprofondasse lo spettatore in un tunnel di angoscia che ti riprendi solo dopo settimane e forse mai.
Invece Payne, aiutato da un George Cloney meraviglioso (buffo, sgomento, disperato, volitivo, dolce, spiazzato, frustrato, tanto intelligente, da Oscar), sceglie di fare una commedia. Che va sì a indagare l’amore, il difficilissimo rapporto padre-figli, il lutto, la colpa, il rispetto delle vite altrui, ma sempre all’insegna di una misura che lascia lo spazio al respiro, alla commozione, alla tenerezza, alla comprensione, alla compassione. E i personaggi, da quelli principali fino ai marginali, hanno tutti senso, sono ricchi di sfumature, sono oggetto di inquadrature sapienti, come se il regista li amasse uno per uno. Matt King è un uomo giusto, senza essere odioso, pedante, impossibile. Soffre, si infuria, è geloso, è disperato, ma sceglie di fare la cosa “giusta”. Di fronte alle figlie, al suocero stronzo (cit.) ma spezzato dal dolore, di fronte all’amante della moglie, perfino di fronte ai reali bisogni della sua terra.
Le figlie di Matt sono insopportabili a volte, ma il regista te le fa capire e amare.
La moglie dell’amante della moglie (ripeto: la moglie dell’amante della moglie) ha una scena di tre minuti che dice dell’essere donna-tradita-dall’uomo-che-ami più di mille saggi di psicologia.
Perfino l’amico scemotto della figlia maggiore, che li segue come un cagnolino per tutto il film, dimostra a un certo punto una sua umanità che avercene di teenager (e di sceneggiatori) così.
Insomma Paradiso amaro è un gran bel film. Ben girato, ben scritto, ben recitato.
Dice tanto e bene della complessità dei sentimenti umani.
E dice anche, così tanto per gradire, che ci sono milioni di paradisi più belli delle Hawaii dove sognare di andare in vacanza.

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