Una panchina, un libroUna maternità da incubo

Lionel Shriver, E ora parliamo di Kevin, Piemme, 2012 Esce oggi nelle sale italiane il film E ora parliamo di Kevin , tratto dall’omonimo romanzo della giornalista americana Lionel Shriver, pubblic...

Lionel Shriver, E ora parliamo di Kevin, Piemme, 2012

Esce oggi nelle sale italiane il film E ora parliamo di Kevin , tratto dall’omonimo romanzo della giornalista americana Lionel Shriver, pubblicato originariamente nel 2003. In attesa di vederlo, ho ripreso in mano il libro, la cui trama mi era rimasta impressa nei tratti essenziali. E come poterla dimenticare d’altronde questa storia a tinte forti che coniuga aspetti da horror alla Stephen King con un messaggio sociale spregiudicato, un vero e proprio statement personale della Shriver: non tutte le donne ambiscono a essere madri, meglio non avere figli che farli senza volerli veramente.

Una tesi che potrebbe essere condivisibile in un’epoca in cui è sempre più difficile sostenere il triplo ruolo di madre, moglie e lavoratrice. Ma per suffragare la sua argomentazione, la Shriver ricorre a circostanze estreme e, per fortuna, abbastanza irrealistiche. C’è da dire che, fin dal frontespizio, la scrittrice ci mette in guardia sul fatto che la storia di Kevin rappresenta l’eventualità peggiore per chi decide di essere madre. Nella dedica alla sua migliore amica scrive “A Terri: il worst case scenario che siamo entrambi riuscite a evitare”. Ma quando, alla fine della lettura, soppesiamo le tragiche conseguenze di questo figlio non voluto, ci rendiamo conto che, per quanto terrorizzante la maternità possa essere , la scrittrice ha deliberatamente calcato la mano sulla violenza. E l’ha fatto in un momento in cui questo ingrediente non era certo un viatico per il successo.
Infatti, il romanzo, completato nel 2001, poco dopo l’11 settembre, venne rifiutato da molte case editrici prima di trovare un piccolo editore coraggioso. La Shriver sostiene che le sue tesi erano troppo trasgressive e che il successo del libro, culminato nel 2005 con il prestigioso Orange Prize, destinato alle migliori scrittrici in lingua inglese, sia dovuto al passa-parola fra quelle donne che si sono riconosciute in un’interpretazione spregiudicata della maternità.

A dispetto degli intenti “sociali”, mi sembra comunque che, più semplicemente, E ora parliamo di Kevin sia una storia inquietante, ben congegnata e ben scritta. Shriver la costruisce sapientemente con una struttura che ricorda Non lasciarmi di Kazuo Ishiguro. Anche E ora parliamo di Kevin infatti inizia con la “fine”: in un certo giovedì del 1999, Kevin, il quindicenne figlio di Eva e Franklyn, si è macchiato di un crimine che lo ha spedito nel carcere minorile della contea. Ma solo nelle ultime pagine capiremo la reale dimensione del delitto e soprattutto l’entità della distruzione che, scientemente, questo adolescente ha voluto infliggere sull’ equilibrio familiare.

Straordinaria l’idea del romanzo epistolare – soprattutto se si considerano alcune circostanze che non posso rivelarvi. Eva, annichilita, umiliata, straziata dopo il delitto del figlio, tra la fine del 2000 e la primavera del 2001 scrive numerose lettere a Franklyn, il marito da cui si è distanziata. In queste missive ripercorre gli anni del matrimonio e soprattutto quelli successivi alla nascita di Kevin. Prima del famoso giovedì, lei era una imprenditrice di successo: colta, curiosa, progressista, un po’ snob rispetto all’americano medio benestante rappresentato da Franklyn. Costui è un tipico prodotto del baby boom: tutto d’un pezzo, repubblicano in politica, poche letture, molto sport, un lavoro buono, ma meno remunerativo di quello della moglie, molta stabilità, e poca, se non nulla, creatività. Eva ama quest’uomo, ma non vuole un figlio: ne decide la nascita a tavolino per non rimanere sola nell’eventualità della scomparsa del marito. Quando il bimbo nasce, sa di odiarlo ed è convinta di essere ricambiata:
Non voleva il mio latte neanche dal biberon: storceva la bocca senza berne un goccio. Poteva annusarlo, poteva annusarmi…Non avrei dovuto prenderla in maniera così personale, ma come potevo? Non era il latte materno che non voleva. Era la Madre che non voleva (la traduzione è mia).

Inizia così una guerra fredda fra madre e figlio dove il padre rappresenta il “poliziotto buono”, che concede a Kevin qualsiasi bizzarria e intemperanza. Per Eva invece Kevin “non è mai stato un bebè. Era arrivato da noi un individuo singolare e incredibilmente astuto che casualmente era molto piccolo.” Nel corso dei successivi quindici anni la vita della famiglia viene turbata da una serie di episodi sempre più inquietanti , che Eva sospetta – anzi è certa – siano attribuibili al figlio.

Paradossalmente – e qui sta ancora la bravura di Shriver – nel corso della narrazione la scrittrice lascia trasparire una nascente complicità tra madre e figlio – complicità che , al di là delle apparenze, non esiste fra Kevin e il padre. A quest’ultimo, per la gioia delle femministe, la Shriver non riserva altro che la parte del gonzo e del perdente nel gioco al massacro che si dipana sotto i nostri occhi fino al tragico finale. E sarà proprio a questo punto che Eva ci stupirà per il suo comportamento niente affatto scontato, viste le premesse. Speriamo che anche nel film questa svolta emerga in tutto il suo sofferto, tragico e tardivo senso della maternità.

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