Quando andavo al liceo, c’era sempre quel compagno di classe gentile che, animato dalle migliori intenzioni, portava le mimose alle ragazze per l’8 marzo. Nonostante ne apprezzassi la cortesia, odiavo quei fiori, sarà perché sono allergica e il dono mi provocava una giornata di pruriti al naso e pacchetti di fazzoletti sparsi sotto il banco, sarà soprattutto perché non ho mai capito cosa dovessi festeggiare in quel fatidico giorno. Conoscevo la ragione per cui era stata istituita la festività, ne affermavo ovviamente l’importanza, ma non vedevo la connessione della memoria storica con cene fuori e feste in locali per sole signore e ragazze. Non consideravo malsano uscire con le amiche né amorale assistere a uno spogliarello, ciò che non comprendevo era perché andasse di moda farlo l’8 marzo. Non sarebbe stato più coerente dedicare quel giorno all’informazione e al dibattito su temi reali legati alla donna? Disoccupazione femminile, maternità, sicurezza e ancora, le donne della storia, della letteratura e dell’arte, aggiungendo ovviamente uno studio sul ruolo sociale della donna nella collettività.
All’epoca non conoscevo gli studi sulla veridicità della tragedia nella fabbrica Cottons, anzi ero certa che la Giornata Internazionale della Donna, fosse stata istituita proprio per commemorare quelle morti. Anni dopo, quando scoprii che non vi erano fonti documentali di quel preciso episodio, mi resi conto che, nonostante tutto, lo spessore emotivo della festività non era minimente scalfito. Se non si ricordavano delle donne in particolare, ve ne erano molte altre da commemorare: l’elenco era infinito, avrei dovuto celebrare tutte quelle donne che avevano contribuito alla mia libertà di adolescente alle soglie del XXI secolo.
Sì, ero già sfigata allora! Mentre la maggior parte delle persone pensavano a cosa fare, io facevo ragionamenti contorti, predicando la relazione, a mio avviso ossimorica, tra la dura battaglia per i diritti civili e la festa ‘commerciale’.
Mi spingevo anche oltre, perché nella mia mania di ‘spaccare il capello a metà’, cominciavo a interrogarmi sulle condizioni che portassero le donne a volersi celebrare un solo giorno l’anno.
Per alcune era un’occasione speciale: uscire con le amiche, avere piena libertà di partecipare a feste ideate per donne, per altre sembrava essere un evento possibile un solo giorno l’anno.
Ero e sono molto stramba, sicuramente in controtendenza con le opinioni della maggioranza, ma l’8 marzo (quello commerciale) continua, anche oggi, a ricordarmi, la festa dei folli del medioevo, quel momento in cui anche i subordinati avevano il diritto di celebrare e celebrarsi, ribellarsi e sottrarsi al controllo.
L’associazione è volutamente enfatica e il paragone azzardato, ma l’aver a volte trasformato un giorno che dovrebbe far riflettere (per molte ragioni che non sono esclusivamente legate alla donna) in una caricatura del peggior addio al celibato di invenzione cinematografica, mi sembrava e mi sembra, riduttivo per noi stesse e per la società tutta.
Non sto condannando, con quel moralismo che sembra connotare tutte le ‘femministe’ né voglio insegnare cosa significhi essere donna stilando il decalogo del buon comportamento femminile (sia mai!), perché così facendo, mi trasformerei esattamente in una forma ricalcata degli schemi che combatto quotidianamente. Sto semplicemente esponendo un pensiero personale nella speranza che qualcuno mi spieghi perché solo io vedo il ‘complotto della libertà vigilata’, lo sfruttamento della festività a uso lucrativo e un voler oscurare la storia delle lotte collettive femminili.
Il mio 8 marzo accoglie l’invito di Matteo Cosenza, direttore del Quotidiano della Calabria, che ha proposto di dedicare la ricorrenza a Maria Concetta Cacciola, Lea Garofalo e Giuseppina Pesce, donne che hanno deciso di combattere l’Ndrangheta offrendo la propria vita alla lotta per la verità, la giustizia e la legalità. Queste donne non sono solo l’emblema del coraggio, ma anche il simbolo di chi sa ribellarsi a un sistema che delle gerarchie patriarcali ha fatto strumento di consolidamento e che della subordinazione umana fa arma quotidiana di potere e controllo.
Donne esempio, come tante altre lo sono state nel corso della mia vita, donne conosciute attraverso libri e donne in carne e ossa, persone che della libertà hanno fatto un ideale concreto da perseguire. Azar Nafisi, Jane Austen e Sibilla Aleramo, ma anche Laura, Caterina e mia madre, tutte donne che hanno contribuito a mostrarmi tante sfaccettature, spesso contrastanti, dell’essere donna, ma tutte rivolte allo stesso risultato: costruirsi per se stesse.
Se vogliamo essere prese in considerazione, dobbiamo farlo noi stesse per prime. Molte di voi, pensando di non avere nulla da conquistare, riterranno che tutte le persone come la sottoscritta, siano visionarie o frustrate, ma chiedo la cortesia di andare al di là delle mie parole volutamente superficiali e di cercare di capire che oltre lo scherzo, non sto sminuendo nessuna di voi, perché per me siete tutte importanti, anzi lo siete a tal punto che, scegliendo di scrivere di voi, ho deciso di celebrarvi ogni giorno.