Blow-UpLa danza dello spirito del tempo. Omaggio a Paul Graham

Quest'anno il prestigioso Hasselblad Award è stato conferito a Paul Graham. Credo si possa parlare di un riconoscimento unanime, da tempo aspettato, quasi una sorta di atto dovuto ad un autore che ...

Quest’anno il prestigioso Hasselblad Award è stato conferito a Paul Graham. Credo si possa parlare di un riconoscimento unanime, da tempo aspettato, quasi una sorta di atto dovuto ad un autore che ha saputo compiere un’impresa davvero impossibile: rimanere, per oltre trent’anni, ai vertici della scena artistica internazionale.
Non solo per la dozzina di libri di grande successo pubblicati nel corso degli anni, o per la lunga lista di mostre sparse in tutti i più grandi musei del mondo, ma sopratutto per una dote fuori dal comune, la capacità di restare sintonizzato sulle frequenze dei cambiamenti.

Nella motivazione finale la giuria del premio si è espressa in modo molto esplicito, direi incontrovertibile. Cito testualmente: «In images both sensitive and subtly political, he makes tangible the insignificant traces of the “spirit of the times” we do not normally see. With his keen awareness of photographic medium, he has constantly developed innovative forms of working with all aspects of photography. This makes him a profound force for renewal of the deep photographic tradition of engagement with the world».

Bene, condivido e sottoscrivo parola per parola. Ma consentitemi di aggiungere qualcosa. Paul Graham è stato ed è un grande fotografo “britannico”. Non si tratta certo di una formula da becero “leghismo” artistico, ma al contrario dell’identificazione di un mood, un’inclinazione contagiosa, che si è poi diffusa fra decine e decine di seguaci, facendo scuola.

Come è noto la fotografia anglosassone degli ultimi decenni ha voluto privilegiare certe forme di militanza più o meno diretta, più o meno politicizzata, dove le immagini hanno avuto il compito di suscitare e alimentare la riflessione intorno a problemi specifici, nella fattispecie quelli riguardanti la società e il lavoro. La partita però si è sempre giocata sul piano della comunicazione di massa, secondo le regole tecniche, il linguaggio e le finalità del giornalismo illustrato. In formula: una rappresentazione della realtà basata sul carattere probatorio delle testimonianze e sulla retorica della visione allo scopo riuscire, in prima istanza, a fornire informazioni e commenti, ma, in parallelo, a catturare pure il consenso e il gusto del pubblico.
In tempi non sospetti Graham si è liberato da questo schematismo coercitivo. Ha abbattuto sia la fede ideologica che la strategia pubblicitaria, ossia i due pilastri della cosiddetta “fotografia sociale”; ha messo in discussione la presunzione di verità del documento fotografico; ed ha privato le immagini del tono enfatico ripulendole dalle tinte sensazionalistiche e dalla fotogenia seduttiva. Insomma negli anni del “thatcherismo” più schietto e intransigente ha saputo proporre una visione “di scorta”, una chiave alternativa per l’interpretazione del mondo. Pur restando nel solco della tradizione, la ricerca di Graham è stata anticonformista, trasversale, ironica ed elusiva, nel rifiuto di ogni punto di vista unilaterale, contro tutti i dogmi della fotografia.

Il primo nucleo di rinnovamento lo importa da oltreoceano, consentendo lo sbarco in terra inglese di certi ben noti cugini americani. Quelli in possesso di un’affinità poetica con il nostro e che già per conto proprio sono stati accaniti avversari dell’establishment: gente del calibro di Robert Frank, Diane Arbus, ma soprattutto William Eggleston.
La loro lezione è semplicemente rivoluzionaria. Si tratta di intensificare la visione della realtà, ma non attraverso l’estasi dell’immagine bensì l’immagine dell’estasi: ossia “tirare fuori” (ex-stasis, “mandare fuori di sé”) il marginale dal ghetto della dimenticanza, riscattare la vita quotidiana che ci circonda ma che non abbiamo più la premura di guardare con attenzione e silenzio. Ritrovare quello stesso sguardo sottile, ellittico, pieno di stupore, come se si vedessero le cose per la prima volta, che in quegli stessi anni va desiderando anche Luigi Ghirri.
Nasce così un capolavoro. A1: the great north road (1981-82), un progetto-pioniere di quello che oggi è il fenomeno dell’autoproduzione editoriale. Libro memorabile non solo per i significati reconditi e manifesti, ma anche per la libertà espressa nella ricerca di una forma assolutamente nuova. Ad esso fanno seguito Beyond Caring, Trouble Land, New Europe e tanti altri, durante il corso degli anni novanta. Al varco della soglia del millennio, Graham sa ancora essere attuale e lo dimostra con un trio di pubblicazioni sconvolgenti: End of an Age, American Night e A shimmer of possibility, prove finali della maturità, verifiche e compimenti di un tempo interno alla sua produzione e alla sua poetica. Una lunga gestazione che, in fondo, nonostante le differenze tematiche, non esibisce sensibili variazioni stilistiche, a riprova di una felice e calibrata coerenza in grado di ricollegare l’ultimo atto con il primo ingresso in scena.

Non posso soffermarmi ad analizzare i singoli lavori, ma posso affermare che in tutti permane una forte tensione di fondo. Fra le immagini che si susseguono di volta in volta, l’obiettivo di Graham lavora instancabilmente per spostarsi di lato, di sotto, a fianco: per raddoppiare, triplicare, moltiplicare le possibilità della visione all’interno di una scena nella quale lo spettatore si trova sempre catapultato (virtualmente) al centro. Ogni sequenza è il tentativo di tradurre questa pluralità in fondo del tutto normale nell’esperienza dal vivo. Quindi per mantenere integrità, autenticità, vitalità nell’atto di registrare tale esperienza temporale, i singoli scatti non possono mai sciogliersi, anzi devono restare insieme, uniti, pena la dispersione e il vuoto. Se si vuole ascoltare il racconto della vita pulsante, totale, bisogna tornare a viverla e non farla cristallizzare in un solo attimo, in una pausa.
La fotografia è fatta per correre a presso agli eventi, per inseguirli con lo sguardo e con la mente. Come durante una danza, un’asse immaginario collega la linea degli occhi con la punta dei piedi che avanzano, arretrano, si spostano, si fermano; e poi ripartono, e poi girano su se stessi, nell’incalzante descrizione di un movimento di passi, fino alla fine della musica. E in quel frangente, breve o interminabile che sia, i corpi continuano a incrociarsi, a fondersi e fra loro scorre rapido tutto un mondo, tutta una storia, la Storia.
Ecco, come ama ripetere Paul Graham, fotografare è proprio questo “ballare con la vita”.

Nell’attesa, sorretta da un inspiegabile ottimismo, che arrivi una proposta espositiva dall’Italia, godetevi alcune sue fotografie tratte dai libri che abbiamo citato.

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