McLuhan spiegava al pubblico americano degli anni Sessanta che il medium è il messaggio. Il gusto paradossale della formula ha agito come uno slogan pubblicitario, contribuendo a renderla famosa, probabilmente oltre i meriti teoretici del suo autore. Gli analisti del mondo digitale non sono riusciti a sottrarsi alla tentazione di emularlo nelle loro interpretazioni dei fenomeni della Rete. Si è detto che gli utenti sono media, dal momento che con qualsiasi comportamento, con i semplici Like – e persino con i clic – contribuiscono a divulgare i post che hanno attratto la loro attenzione e che hanno meritato qualche frammento del loro tempo. Il sillogismo si chiude quindi con l’affermazione che gli utenti sono il messaggio – e gli scandali delle ultime settimane sui metodi con cui Google e Facebook aggirano le leggi sulla privacy mostrano che questa conclusione non è affatto il risultato di un’astrazione.
Il Sunday Times ha rivelato il 26 febbraio scorso che Facebook ha stretto vari accordi con i produttori di app destinate ad ambienti sia Apple sia Android, per leggere i contenuti degli SMS degli utenti. L’obiettivo dell’operazione sarebbe consistito nel raccogliere i requisiti necessari allo sviluppo di un’app di proprietà del social media per l’invio di SMS. Non si tratta di un giustificazione così innocente, se si pensa che lo scorso ottobre WhatsApp ha raggiunto 1 miliardo di messaggi inviati ogni giorno – e che il successo di questa applicazione, insieme a quello di Viber e Skype, sta minacciando una delle fonti di ricavi più solide per il mercato delle compagnie telefoniche: in un anno i guadagni perduti si aggirerebbero intorno ai 14 miliardi di dollari.
Solo qualche giorno prima, il Wall Street Journal aveva scoperto che Google raccoglieva dati sugli utenti che usano il browser Safari; per questa vicenda la società di Montain View è stata sottoposta ad indagine sia dall’FTC americana, sia dalle autorità europee. D’altra parte, sembra che Facebook non fosse da meno nella gara alla registrazione delle informazioni sugli utenti, applicandola questa volta però a Internet Explorer della Microsoft.
Il fatturato di Google e di Facebook dipende per più dell’80% dagli incassi pubblicitari. Il processo di personalizzazione che hanno intrapreso negli ultimi 4-5 anni è volto alla realizzazione di un “profilo di persuasione” individuale. Google lo costruisce interpretando ogni clic dell’utente come un segnale delle sue preferenze: la web history dei link che ha seguito indica il tipo di interessi da cui è guidato nella navigazione. La soggettività che emerge da questa ricognizione è ritagliata sulle scelte istintive o su quelle che provengono per inerzia dalla tradizione personale. Facebook invece disegna il profilo di persuasione a partire da dichiarazioni esplicite degli utenti: i Like sono indicazioni rilasciate in modo intenzionale dai soggetti su ciò che ha attratto la loro attenzione. La personalità rintracciata dal social network è di tipo aspirazionale, dal momento che l’individuo promuove un’immagine di se stesso definita da ciò che per gli altri devono essere i suoi interessi e le sue relazioni personali.
Il percorso avviato da Google con il Panda Update del febbraio 2011, e culminato con la nuova policy sulla privacy attivata a partire dal 1° marzo scorso, mostra però la decisione di Mountain View di annettere al proprio meccanismo tradizionale di profilazione anche quello delle dichiarazioni esplicite degli utenti. Questa chiave di lettura degli interessi individuali ha assunto un ruolo sempre più decisivo nel compito di attrarre gli inserzionisti pubblicitari. Da quando Larry Page ha sostituito Eric Schmidt alla guida di Google, la focalizzazione sui servizi core business e la costruzione di una componente sociale nell’algoritmo di ricerca hanno subito un’accelerazione che è entrata in conflitto con le tradizioni interne dell’azienda e con l’immagine rappresentata dal motto “Don’t be evil”.
I malumori contro questa ristrutturazione della strategia di Google sono stati intercettati dal post di James Whittaker in cui l’ingegnere spiega le motivazioni del suo ritorno in Microsoft dopo due anni di lavoro a Mountain Vew. Gli argomenti esposti il 13 marzo dall’ex-dipendente di Google sono almeno in parte motivati dalla guerra tra Microsoft (che è partner anche di Facebook) e il motore di ricerca: lo sottolinea il fatto che le dichiarazioni sono apparse su un blog gestito direttamente da Microsoft. D’altra parte le riflessioni di Whittaker riescono a fare presa sul pubblico degli analisti perché si riferiscono ad una trasformazione dell’ambiente di lavoro interno a Google che non è piaciuto a molti.
Le osservazioni sulla chiusura dei Labs sono condivise da un pubblico ampio, dal momento che questa scelta è stata nociva per l’immagine di “gigante buono” che ha sempre circondato Google. Le considerazioni su G+ sono invece troppo banali per essere vere. La mossa di Google è un’interpretazione di quella che si sta mostrando come una vera svolta di paradigma nella cultura digitale, e che non si può risolvere con il riduzionismo soggettivo delle manie personali di Page. Il CEO di Google può essere paranoico e antipatico – ma non è né un idiota né un bambino viziato, per cui sa benissimo che non si sfida un gigante da 1 miliardo di utenti iscritti come Facebook sul suo stesso terreno di gioco, per di più contando di raggiungerlo nell’arco di qualche mese. Il semplicismo con cui è trattato il tema, invece, fa leva sull’immagine sgradevole che Larry Page non ha saputo cancellare dalle sue apparizioni pubbliche: Page è una sorta di ipertrofia di tutte le qualità negative della cultura nerd, senza l’eleganza aristocratica con cui Jobs era riuscito a convertirla in una nuova civiltà geek. E’ un difetto che gli americani, soprattutto se sono passati da qualche college, non sono in grado di perdonare facilmente.
Google+ è la risposta di Google ad una forma di Internet che non è più quella dei miliardi di pagine disordinate e illimitatamente aperte alla ricognizione dei bot – com’era la Rete fino a pochi anni fa. Nell’epoca dei social media e delle app per smartphone, i contenuti sugli utenti e sulle loro relazioni sono rinchiusi nei wallet garden dei proprietari delle piattaforme. Già alla fine del 2009 Il New York Times riferiva che gli amici cominciavano ad avere un valore economico preciso (circa 1 centesimo di dollaro l’uno), e che per alcuni blogger la rete delle conoscenze produceva un reddito grazie a concessionarie di pubblicità come MyLikes o Adly. In due anni il prezzo degli amici non sembra essere cambiato di molto, ma nel 2012 si è aggiornato il valore che le relazioni possono raggiungere per il piano marketing delle aziende: 14 dollari uno share su Facebook, 8 dollari un Like, 5 dollari un tweet, 2 dollari un follow su Twitter. Facebook sta realizzando il suo IPO da 100 miliardi di dollari, e il valore economico degli amici sta superando quello degli status symbol tradizionali, dalle macchine alle case. Non stupisce che Google abbia eletto G+ a collettore di tutte le informazioni che riguardano gli individui, secondo il piano di integrazione descritto nella nuova policy della privacy. Le fonti di dati cui Google attinge sono così tante che secondo alcuni analisti la partecipazione del pubblico alla vita del social network sarebbe addirittura superflua per gli obiettivi di business di Mountain View.
Conclusione: Gli utenti sono il contenuto della promozione pubblicitaria, e sono il medium del guadagno economico dei giganti della Silicon Valley.