Il saggio teorico non è certamente uno dei temi più trattati in questo blog, ma ogni tanto, soprattutto quando emerge la qualità del pensiero critico, possiamo fare un’eccezione.
È questo il caso del bel libro di Luca Panaro, uscito qualche mese fa per le edizioni APM, dal titolo Tre strade per la fotografia.
Lettura piacevole, scorrevole ed elegante, di grande valore didattico, condotta da un autore capace d’interpretare all’unisono il ruolo dello studioso e del curatore, ma anche di distillare nella leggera e al tempo stesso profonda misura stilistica, potremmo dire del pamphlet rivisitato, una piccola storia della fotografia contemporanea tascabile. Il pregio principale del volumetto è proprio questo: niente a che vedere con i soliti manuali-mammut straripanti di nomi, titoli, date, luoghi, allineati in lunghe ed estenuanti sequenze alfabetiche, bensì un prontuario di navigazione, una guida che con l’ausilio di mappe ben costruite consente al lettore, anche meno esperto, di muoversi con disinvoltura nei complicati territori della contemporaneità.
A nostro avviso la scelta editoriale è stata felice proprio perché ha saputo eludere uno dei più insidiosi rischi di debâcle cui incorre la critica con taglio storico-metodologico: la rassegna rapsodica e frastagliata degli autori e delle opere per cui non si danno criteri di appartenenza, regole comunitarie, orientamenti di ricerca, ma soltanto cronologie e repertori.
Ma veniamo al libro. Il lavoro è tripartito e a ciascun capitolo-sezione corrispondono certi esempi applicativi. Il primo concerne il campo di applicazione di ciò che potremmo definire il paradigma archivistico. Esattamente come l’avrebbe potuto formulare l’epistemologia contemporanea. Panaro, infatti, sulla scia di Lev Manovich, che a sua volta sviluppa il pensiero di Walter Benjamin, ritiene che l’archivio e la sua logica di accumulazione sistematica, una volta metabolizzati dalla produzione fotografica, diventino una sorta di “a-priori trascendentale” in grado di ristrutturare la percezione dello spazio e del tempo. Dalle origini all’epoca di Facebook la fotografia è stata una produzione replicante; una macchina dell’inautentico e dello stereotipo, una fabbrica dei multipli. E la sua reiterazione inesauribile ha esercitato pressione subliminali indelebili sui tutto l’apparato sensoriale. Tuttavia è con la rivoluzione duchampiana che l’immagine del “rifatto”, conditio sine qua non della stessa fotografia, si fa regola d’arte. La citazione spiazza l’invenzione originale e tutto diventa recuperabile e abilitato al riscatto. L’universo della fotografia è, in buona sostanza, immaginabile come un gigantesco mega-store di oggetti artificiali di ogni genere da scegliere e trasformare in nuove rappresentazioni, in nuovi simboli, ma che a loro volta, e questo Panaro lo intuisce perfettamente, non interrompono, non cristallizzano il processo dell’archiviazione, fatto di scambi, trasferimenti, riproposizioni, anzi lo convalidano, lo amplificano. La ricognizione parte dall’alba del XX secolo (Picasso, Duchamp, De Chirico), si estende di decennio in decennio arrivando negli anni settanta a culminare nell’opera omnia di Franco Vaccari. Ma un lavoro febbrile e inesauribile come la pratica d’archivio non si arresta mai: al contrario si rigenera nella ricerca estetica di tanti giovani, molti dei quali italiani ( Rossi, Chironi, Spranzi, di Bello, Nonino ecc.) e si prolunga nei territori della Rete.
La seconda sezione riguarda invece una “seconda anima” della fotografia. Se prima l’autore si era soffermato sull’attività riproduttiva, cioè sull’essere una dimostrazione e una continuazione del preesistente, del “già fatto”, ora si interessa alla funzione ottico-speculativa dell’immagine, cioè al processo della visione e della verifica del mondo davanti all’obiettivo. Anche questo intervento intrusivo del mezzo fotografico in un’ epoca come la nostra dominata dalle immagini ha raggiunto punte di esasperazione degenerando in forme di voyeurismo e di sorveglianza spesso perturbanti se non addirittura minacciose. Panaro, con avvedutezza, evita di addentrarsi in un campo minato quale potrebbe essere il rapporto fra immagine e potere, pur facendo qualche accenno all’Orwell di 1984, ma invece in omaggio alla componente “warholiana” molto diffusa nelle ricerche estetiche degli anni ottanta e novanta, anche quelle più trasversali, di sconfinamento nel cinema e nella moda, propone in chiave pop-televisiva l’idea di “reality show”. Secondo lui l’ “iconosfera fotografica” è trasparente, senza veli, è come “il bordello senza muri” citato da McLuhan in cui il reale si mette a nudo, o meglio diviene tutta apparenza per “realizzarsi” come mondo conoscibile. Tuttavia Panaro sottolinea non tanto l’aspetto naturalistico-originario di questa manifestazione ma piuttosto quello artificiale, teatrale, narrativo, in cui i soggetti, protagonisti consapevoli del potere del medium, mettono in scena il loro desiderio di realtà.
L’ultimo capitolo è una sorta di corollario del precedente. Vero e falso, illusione e realtà, artificio e natura una volta percepiti per via fotografica si unificano, si sovrappongono, sembrano indifferenziabili. Questo accade anche quando il cosiddetto referente viene dichiaratamente contraffatto, ricostruito da mano umana. Questo perché è il mezzo stesso a produrre la simulazione, l’induzione a credere possibile, esistente, ossia vero tutto ciò che appare in una fotografia. Possono essere i modellini architettonici in scala di James Casebere, le sculture di cartone ritagliato di Thomas Demand, o il paese in miniatura di Luigi Ghirri e tanto la loro palese finzione guadagna spessore e credibilità. Le loro manipolazioni percettive acquisiscono una patente di autenticità fittizia ma valida e senza scadenza. Nel gioco postmoderno del “vedere per credere” l’immaginazione non ha più limiti né spaziali né temporali, e se da una parte ci sono quelli che alterano con arguzia tecnica l’attualità presente, dall’altra alcuni sublimi giocolieri intervengono sui molteplici piani della temporalità producendo mirabili illusioni, in bilico fra visioni preistoriche (Tranchina) e para-fantascientifiche (Foncuberta) di cui, del resto, non celano affatto il piacere del trucco e dell’inganno.
In conclusione, le “tre strade” tracciate dall’autore del libro sono precise ed efficaci e di certo faranno parlare. Però va ricordata una non meno importante “quarta strada”, non inserita nel titolo, ma sottesa a tutto il saggio, che in un certo senso è destinata alla critica, o, diciamo meglio, a un certo modo di fare critica. La critica, che non vuole squalificarsi in forme di scrittura velleitar-filosofica, il genere che imperversa su molte riviste militanti e, ahimè, in buona parte dei testi per le mostre, deve diventare progetto “ragionato”, lavoro interessato alla sintesi stilistica e culturale.
La critica deve essere una bussola, una strategia di orientamento, una visione. Luca Panaro docet. Meditate gente, meditate.