Qualche anno fa lo chef ultramediatico Jamie Oliver aveva pensato di dare una chance a 15 giovani senza impiego, trasformandoli in cuochi nel suo ristorante londinese “Fifteen”. Poi Jon Bon Jovi aveva aperto in New Jersey “The Soul Kitchen”, un ristorante dove il menù non ha prezzi e ciascuno paga secondo quanto può, mentre una schiera di volontari sopperisce ai mancati introiti.
Quella che vi racconto, però, è un’altra storia. Non c’entrano rockstar né chef mediatici.
Il primo ristorante e bar solidale si trova a Casarsa della Delizia, a due passi dalla casa materna di Pasolini, oggi Centro Studi a lui dedicato; si chiama “al Posta”, come tanti bar-ristorante di paese, ma con quelli non ha molto in comune, se non il desiderio di dare alla comunità locale un luogo d’incontro alternativo “al cimitero o alla discarica”, come dice ridendo Enos Ceschin, che del ristorante è un po’ il padre.
Vicino al Posta ha sede il Piccolo Principe, cooperativa sociale straordinariamente attiva da molti anni in progetti di integrazione sociale, che ai “suoi” ragazzi ha insegnato a rendersi autonomi anche attraverso la cucina, poiché molti tra loro, i ragazzi down in particolare, hanno bisogno di specifiche attenzioni dietetiche.
Dall’entusiasmo dei ragazzi in cucina è nata l’idea di Giuliana Colussi, presidente del Piccolo Principe, di offrire un servizio di catering per piccole feste private. Impegno e soddisfazione crescenti hanno fatto il resto, dando vita al Ristorante, ad Asteroide B612, la cooperativa che del ristorante si occupa, e a Rattatuia (in dialetto significa ciò che si butta via), un progetto ad ampio respiro che coinvolge le fattorie sociali che impiegano lavoratori svantaggiati e che sono diventate i primi fornitori del ristorante.
Asteroide B612 era il pianeta-casa del Piccolo Principe, una casa perduta e, in questo caso, ritrovata.
Una casa per i bambini, che qui hanno una stanza giochi tutta per loro (quanti ristoranti conoscete che portano anche solo i pennarelli a tavola?), una seconda casa per la comunità locale, che qui si abitua a bere caffé e cioccolata equosolidali (sono in carta allo stesso prezzo di quelli tradizionali, anche se per la cooperativa sono un po’ più cari, ma quel che importa è far passare il messaggio), una casa , soprattutto, per quelli che qui si chiamano “integrabili”, con quel suffisso “-bile” che già da solo indica possibilità e buona volontà. Persone svantaggiate perché disabili o perché senza lavoro da così tanto tempo da essere divenute difficilmente reinseribili nel circuito lavorativo e a cui qui viene data l’opportunità di avere un ruolo, per sé e per il piccolo mondo che le circonda.
Una casa con pianoforte e batteria sempre a disposizione di chi li voglia suonare e una seconda casa per le comunità che dall’altra parte del mondo producono oggetti bellissimi con pezzi di recupero, che qui si espongono e si vendono.
In cucina ci sono prodotti locali a km zero, un giovane chef che crea piatti interessanti con un piccolo budget, mettendoci dentro la sua storia, dal Friuli alla Liguria e ritorno, e ci sono i ragazzi “integrabili” come Donato, Arianna o Patrizia, che con la cucina solidale ora hanno un ruolo e un mestiere.