Google e gli altriLa Cina e i motori di ricerca in carne umana

«Mi piacciono molto queste parole del presidente Mao: “Il mondo è nostro, dobbiamo rimanere uniti, per ottenere dei risultati. Responsabilità e serietà possono conquistare il mondo, e i membri del ...

«Mi piacciono molto queste parole del presidente Mao: “Il mondo è nostro, dobbiamo rimanere uniti, per ottenere dei risultati. Responsabilità e serietà possono conquistare il mondo, e i membri del Partito Comunista Cinese rappresentano queste qualità”. Queste parole sono fonte di grande ispirazione». Una mattina dell’aprile 2009, 13 milioni di possessori di cellulari nella città di Chongqing hanno ricevuto un SMS con questa riflessione da Bo Xilai, il leader conservatore che è stato estromesso dai vertici del partito lo scorso 15 marzo. Molte voci non confermate gli attribuiscono il tentativo di ordire in questi giorni un colpo di stato – e il fatto che siano passate sui social media più popolari in Cina avrebbe causato l’operazione di censura cominciata il 31 marzo, con una conclusione prevista per la mattina del 4 aprile.

Tencent e Sina sono l’equivalente cinese di Twitter (e in un certo senso anche di Facebook). Il primo è stato fondato nel 1998, è valutato 11 miliardi di dollari, è il più ampio portale di messaggistica del paese e riscuote il maggiore successo nelle campagne; il secondo ha aperto nel 2000, conta 250 milioni di utenti registrati e guadagna favori soprattutto tra i colletti bianchi e nelle aree urbane. «Weibo» è il termine con cui si indica il formato di comunicazione del microblog, ma come osserva Fabio Chiusi il suo funzionamento è un po’ differente rispetto a quello occidentale: infatti i follower possono commentare i post di chi ha inaugurato il thread di conversazione.

La censura si è focalizzata proprio sulla possibilità di interazione tra gli utenti: ma il giro di vite dovrebbe sorprendere per il motivo contrario rispetto a quello che ha fatto più rumore in Occidente. L’ordinanza infatti ha vietato solo i commenti, non la facoltà di continuare a postare messaggi ciascuno per conto proprio: il dialogo viene dilazionato, non impedito. La proibizione non arresta l’accesso ai siti e non strangola la voce degli utenti, intraprendendo una mossa lacunosa, come la Grande Muraglia, e come l’atteggiamento in generale del Partito nei confronti dei new media. Pechino non ha mai diramato una regolamentazione di ciò di cui è proibito discutere nella blogosfera e sui social network: il compito è rinviato agli amministratori locali – ma soprattutto alle imprese stesse, che devono vigilare sui contenuti proposti dagli utenti immaginando cosa potrebbe infastidire le autorità.

A metà 2008 Rebecca MacKinnon, allora caporedattrice della CNN nella capitale cinese, ha tentato un esperimento per controllare quale fosse la reazione della censura alla pubblicazione di post sui temi più controversi del periodo, dall’AIDS al Tibet. Ricorrendo ad avatar fittizi, ha popolato oltre una decina tra i blog più frequentati con un centinaio di post “pericolosi” dal punto di vista della libertà di espressione. I gestori dei servizi di social networking più attenti hanno rimosso circa la metà dei post; quelli più laschi si sono limitati alla soppressione di un solo post. Il ritratto che la MacKinnon ne ha tratto è descritto dall’etichetta “Censorship 2.0”: la decentralizzazione della censura, e la libertà di interpretazione da parte delle aziende che rilasciano il servizio, non permettono a nessuno di sapere in anticipo quali tra i propri contributi alla libertà di pensiero resteranno accessibili agli altri utenti. L’effetto è quello tipico del panopticon: i danni sono peggiori di quelli della censura totalitaria, perché se i dissidenti non riescono a prevedere quali contenuti resteranno disponibili, non possono nemmeno pianificare una campagna di comunicazione.

Morozov denuncia l’ingenuità del “paradosso del dittatore” sognato dai paesi occidentali: l’illusione americana ed europea è che le dittature temano le tecnologie digitali e ne ostacolino la penetrazione nei loro paesi – ma che in questo modo condannino le loro nazioni ad una tale arretratezza economica da rendere impossibili le manifestazioni di protesta che li rovesceranno. D’altra parte, se accogliessero l’ingresso della Rete, la libertà di informazione che questa innovazione comporterebbe finirebbe per rovesciarli comunque. Eppure è Chavez, non la Clinton, che guadagna migliaia di follower tweettando dal Blackberry.

Le dittature hanno un rapporto tutt’altro che impreparato con i nuovi media. I leader cinesi sanno che il modo migliore per contenere l’effetto dirompente dei dissidenti è quello di disperdere la loro voce in un mare di sciocchezze divertenti, piuttosto che trasformarli in eroi e in esempi per gli altri. L’assenza di proibizioni esplicite dall’alto lascia libero spazio alla diffusione delle chiacchiere e dei LOLcats sulla Rete, impedendo l’organizzazione di un sistema coerente di opposizione con la lacunosità imprevedibile della repressione dei gestori (minacciati negli interessi economici da eventuali noie con il governo a causa degli utenti riottosi) e dall’autocensura degli utenti stessi. L’improvvisa abbondanza di informazioni non aiuta per nulla la causa del senso critico e della democrazia – la televisione italiana insegna.

Gli “human flesh search engine” (motori di ricerca in carne umana) sono un fenomeno nato e diffuso in Cina. Sono gruppi di utenti che danno la caccia alle informazioni su altri individui, sia on-line sia off-line, per biasimare i loro comportamenti denunciandoli all’opinione pubblica della Rete. Partono da qualunque indizio, il nome, l’indirizzo IP, anche la sola immagine, e setacciano tutte le risorse informatiche per compilare un dossier completo. In origine si è ritenuto che questa forma di organizzazione fosse un sintomo della prossima caduta del regime, colpito negli aspetti più deteriori della corruzione e dell’inefficienza. Eppure il governo ha saputo cooptare gli human flesh search engine per i propri fini: li usa sia per azioni di propaganda, sia soprattutto per rintracciare coloro che protestano contro il Partito sui blog. Gli effetti della pubblica gogna on-line, che segue alla divulgazione di fatti privati, può condurre ad effetti peggiori di quella comminata a livello fisico durante gli anni della rivoluzione culturale.

In questo contesto, la notizia di oggi è che Zuckerberg è tornato in Cina per tentare il rientro nel paese dopo il bando del 2009 per Facebook. Si tratta di una mossa che Hilary Clinton saluterebbe come una promessa di riavvicinamento del paese alla democrazia. Anche Zuckerberg sembra condividere questa posizione: nella comunicazione ufficiale che ha accompagnato l’avvio dell’operazione IPO, il fondatore del più grande social network del mondo ha affermato che il valore della sua piattaforma è anzitutto di tipo sociale e culturale: Facebook incrementa il grado di democrazia e di accesso diretto del pubblico alle decisioni collettive. Poche righe sotto però Zuckerberg segnala che soltanto la meritocrazia tecnologica seleziona coloro che possono accedere alla creazione e al controllo delle regole del gioco: la piattaforma software stabilisce chi può parlare con chi, decidendo tramite un algoritmo sofisticato e creativo cosa debba essere meglio per tutti.

Il governo cinese sembra essere in grado di dare una mano a questa visione della democrazia, eliminando quel poco di rumore che i dissidenti inseriscono nella chiacchierata globale. La sua comprensione delle meravigliose pieghe in cui si addensano le ombre della democrazia elettronica è tutt’altro che ingenua, e perfettamente operativa: non ha dovuto aspettare la lettera di Zuckerberg per scoprirla. Il Mondo Nuovo di Huxley è servito.

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