È tempo che io ne prenda atto.
Che lo ammetta.
È tempo di accettare quello che ormai mi è evidente.
Inutile ostinarsi a cercare di costruire un rapporto,
frustrante sperare di scorgere un’affinità, un’assonanza, una risonanza.
Tra me e il cinema francese contemporaneo non c’è futuro, ma nemmeno presente.
Dei film che ho visto quest’anno non me ne è piaciuto davvero nemmeno uno (a parte Polisse, tostissimo).
Non li ho visti tutti quelli usciti ques’anno, ma qualcuno sì.
Ed è così: le commedie non mi fanno ridere, quelli drammatici il più delle volte mi irritano senza nemmeno commuovermi.
Ci ho pensato tanto, non è un problema di attori: i francesi sono quasi sempre bravi, efficaci, intensi.
E nemmeno di regia: difficile che non sia ben fatta, ben confezionata, spesso poetica.
È qualcosa nelle loro sceneggiature, nella drammaturgia che non funziona (per me, si intende).
Ieri sera, per esempio, è successo di nuovo.
Al seguito di tre amiche sono andata a vedere Tutti i nostri desideri, di Philippe Lioret: un film drammatico francese piuttosto tipico, e infatti c’è pure Vincent Lindon, il prototipo dell’attore d’Oltralpe.
Nel film ci sono tutti gli ingredienti per la costruzione del dramma e anche della denuncia sociale.
C’è Claire (Marie Gillain), una donna giovane, sposata e con due figli, professione giudice, che scopre di avere un tumore incurabile, e c’è la sua lotta, portata avanti insieme a un fascinoso e più maturo collega (Lindon, appunto), per provare a porre dei limiti allo strapotere che hanno gli istituti di credito su chi ha contratto debiti con loro e non è in grado di ripagarli.
La denuncia sociale che mette in scena il film è quanto mai attuale e si intreccia con la tragedia privata di Claire, che non solo rifiuta le cure ma anche di condividere la sua disperazione con chiunque, marito compreso, fino a quando non le sarà più possibile nascondere il male che la sta devastando.
Con temi così, la crisi economica che sta diffondendo disperazione in tutta Europa, la vita, la morte, l’amore, si poteva fare un film profondo, terribile, viscerale, potente.
E invece, nonostante sia ben girato e ben recitato, resta in superficie e non affonda il coltello e nemmeno consola davvero, a parte per il successo di una battaglia legale che però appare poco plausibile se ci si sofferma sulle modalità con cui viene condotta e sui tempi che portano alla sua conclusione.
Come davvero poco plausibili appaiono certi comportamenti di Claire e del suo fascinoso giudice, e questa volta giuro che mi ci sono impegnata a non immedesimarmi troppo.
Quindi, passi che non dica niente al marito della sua malattia, passi che nonostante sappia che ha pochi mesi di vita trascorra più tempo con il giudice che con i figli, passi che si dia un gran daffare per trovare la sua sostituta accanto a marito e figli per quando lei non ci sarà più (una sostituta che le dovrà assomigliare così tanto da indossare i suoi vestiti e usare il suo stesso profumo!), ma francamente, per esempio, mi pare impossibile credere che una che sta morendo in ospedale possa strapparsi la flebo dalla vena e fuggire a vedere una partita di rugby in notturna, aiutata in questo da un uomo che oltretutto è un giudice: immagino che se uno che non è parente porta via dall’ospedale una paziente così grave poi si troverà a passare guai molto molto seri con la legge. Il fatto è che se ciò che viene mostrato non è credibile se ne smorza la portata emotiva e anche il significato,
Ancora una volta sono uscita dal cinema insoddisfatta e innervosita. Non perché ho visto un brutto film, ma perché è un’ennesima occasione sprecata.
24 Maggio 2012
Marta che guardaCinema francese non mi avrai (più)
È tempo che io ne prenda atto. Che lo ammetta. È tempo di accettare quello che ormai mi è evidente. Inutile ostinarsi a cercare di costruire un rapporto, frustrante sperare di scorgere un'affinità,...
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