L’Italia non è un paese per madri: ad affermarlo è il Rapporto sullo stato delle madri nel mondo di Save the Children, che ha bocciato il nostro Paese come un luogo in cui le donne non ricevono assistenza e tutela adeguata da rendere facilmente programmabile una potenziale maternità.
Proprio in questi giorni, prima di conoscere i dati inquietanti del Rapporto, proponevo sulla mia pagina Facebook un dibattito tra ‘amici’ circa la mia avversione all’equivalenza donna=mamma (o peggio ancora donna ‘se e solo se’ mamma) poiché avversavo l’idea che l’istinto materno sia una peculiarità insita nel sesso femminile. Immagino, infatti, la maternità come una potenzialità della donna, non come condizione obbligatoria legata a un processo biologico, volto come mi è stato fatto notare, al mantenimento della specie.
Essendo entrata in medias res nelle mie elucubrazioni mentali, cerco di dare un ordine logico alle considerazioni che vorrei proporvi: ha senso dire che una donna non sia completa senza un figlio? E ancora, le difficoltà che connotano la vita di una donna in Italia, possono essere ridotte alla difficoltà, oggettiva e comprovata, di mettere in atto un eventuale desiderio di maternità?
Ho letto considerazioni di uomini che, riassumendo (anche se il riassunto è spesso forviante), giudicano immatura la donna che decida, a seguito di considerazioni circa la propria predisposizione, di non fare figli. Ma, possiamo accusarla di egoismo se non si sente in grado di abnegarsi? E, dato il mutare dei tempi, possiamo negarle la possibilità di far coesistere maternità e autodeterminazione, senza che la si continui a bollare come madre snaturata?
Pensavo che le categorizzazioni fossero cosa obsoleta, ma mi sbagliavo. Leggendo i commenti di persone erudite e intelligenti, è chiaro che persistano delle categorie astratte che stentano a scomparire.
La donna o è bella e superficiale (spesso rifatta, palestrata e abbandona-figli alla baby sitter di turno) o è dimessa, lavoratrice, ma comunque abbandona-figli al nido (visto come più popolare). Altrimenti, diventa un mostro senza sentimenti che assume le connotazioni maschili del tycoon, diventando figura mitologica dal corpo di donna e cuore di uomo.
Possibile che non si riesca a decostruire una società che si fonda su stereotipi e categorie?
I dati del Rapporto purtroppo dimostrano che la donna soffre di una ghettizzazione lavorativa e sociale che la conduce a perseguire scelte obbligate su quale habitus adottare: la madre o la donna in carriera (che assume spesso una connotazione ironico-dispregiativa) o la ‘sex symbol frutta soldi’. Il suo corpo viene frammentato in parti, che poi retoricamente parlando, la rappresentano nella sua interezza. Il linguaggio che narra il suo corpo abusa della figura retorica della sineddoche, la parte per il tutto: a volte un seno mozzafiato (come nel caso di Denise Milani) e altre un utero-incubatrice. E’ quello che il narratore vede in lei, ma che lei stessa, nello specchio non riconosce. Ricorda le donne di Picasso: molte sfaccettature in un unico corpo, che l’osservatore, però, non riconosce come ‘multifunzionale’ e che rifiuta possa appartenere a più ‘categorie’ simultaneamente.
Nonostante le battaglie civili, il retroscena culturale che ha generato immagini stereotipate esiste e persiste. La donna assume i ruoli che la visione patriarcale le ha concesso: da immacolata genitrice a giocattolo sessuale, mera pedina: strumento procreativo o di piacere. Persiste, altresì, una visione che tutela il sesso maschile nella libertà di autodeterminarsi senza pagare il conto: ci si è mai interrogati seriamente sul fatto per cui non esista una sinonimia linguistica tra uomo e padre? Perché si concede all’uomo la libertà responsabile di decidere di diventare padre, in base alle sue predisposizioni, senza giudicarlo se considera se stesso inadatto alla paternità?
La maternità è sì un’esperienza unica, è vero che un figlio arricchisce la vita, la cambia e la stravolge, ma non tutte le persone sono attirate da questa ricchezza e, quando faremo cadere l’ipocrisia, capiremo che privarsi di una potenzialità non è egoismo, ma gesto responsabile e generoso nei confronti dell’eventuale vita di un bambino.